Chi sa cogliere spunti senza fermarsi alle apparenze, può avvalersi della cinematografia quale utile strumento di comprensione delle realtà profonde. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi, è avvenuta (almeno nel mondo cosiddetto occidentale) una colonizzazione sottile fondata sull’assimilazione culturale al modello americano. La chiave di volta di questo sistema di controllo planetario sono senz’altro i mezzi di comunicazione di massa, i quali si servono della forza delle immagini per dispensare stereotipi a cui l’opinione pubblica finisce, giocoforza, per aspirare. Tuttavia, all’interno di questo enorme calderone di immagini volte ad una funzione propagandistica, si può estrapolare qualche elemento dotato di una straordinaria peculiarità: instillare nello spettatore il seme del dubbio circa la bontà dell’american way of life. Va dato atto al cinema statunitense di aver spesso sviscerato la realtà contemporanea sino a farne emergere contraddizioni, fragilità, decadenza, ossia tutte quelle verità sociali che l’americanismo porta in dote ma che vengono celate dal suo efficace velo di propaganda. Requiem for a Dream non è un capolavoro, ma indubbiamente si colloca in questa prospettiva di denuncia sociale, ed ha la caratteristica di farlo in maniera dirompente, andando a scavare nei meandri più nascosti della periferia alla ricerca di quelle pietre dello scandalo da poter esibire senza vergogna ad una platea abitualmente imbonita da immagini di propaganda. Già il titolo, un misto tra la nobile e antica lingua latina e la rozza parlata anglosassone, è eloquente: Requiem è la Messa celebrata in memoria di un defunto, che nella fattispecie si applica per il Dream(il sogno), che l’americanismo vende a buon mercato ai suoi sudditi ma che si rivela un inganno dai risvolti drammatici. Il film racconta il percorso verso la felicità di alcuni di quei poveri reietti che riempiono le borgate delle metropoli americane, antiestetici lidi di mestizia da cui, certo, la felicità non può che latitare. Un percorso che si basa su propositi fallaci: il piacere effimero, l’espediente, l’inadempienza nei confronti del prossimo; un percorso, dunque, destinato a fallire miseramente riconsegnando questi squallidi avventori a destini disperati. Questo viaggio verso l’abisso si svolge, per i protagonisti, attraverso un periodo di tempo che va dall’estate, passa per l’autunno e termina in inverno; stagioni corrispondenti all’ascesa, al declino e alla caduta. Sottosezioni che sono il paradigma del sogno americano, il quale parte dall’illusione del “migliore dei mondi possibili” sino a rivelarsi una chimera prodiga di inquietudini. L’ambientazione è la grigia periferia newyorkese, tra Brighton Beach e Coney Island, dove vivono i protagonisti di questa drammatica pellicola: Sara Goldfarb, un’anziana vedova relegata nella solitudine che solo l’abuso di tv riesce rovinosamente a compensare; suo figlio Harry, un tossicodipendente che fonda la propria vita nella ricerca di veleni da iniettarsi nelle vene, insieme alla sua ragazza Marion e all’amico Tyrone. L’inizio della storia sembra essere generoso nei confronti dei quattro personaggi, che cedono a diaboliche lusinghe che tuttavia li condurranno in un vortice dal quale non sapranno più sottrarsi. La vecchia Sara riceve un giorno un invito telefonico che la rende entusiasta: una voce amichevole le comunica attraverso la cornetta di essere stata inserita in una lista di possibili partecipanti ad un programma televisivo di cui le sue stanche pupille sono ghiotte. Un palcoscenico per poter finalmente affermare la propria esistenza, un’occasione eccezionale di ribalta per questa anziana vedova, sola e delusa da un unico figlio che brancola nel disagio, lontano da quei propositi di gratificazione sociale che ogni madre agogna per la sua prole. Emozionata, decide che per l’evento indosserà un vestito rosso, confinato in un armadio da decenni e quindi non più adatto ad un corpo ingrassato dall’età. Decisa a conformare se stessa all’abito pur di apparire impeccabile nel momento di gloria che la tv le concederà presto, intraprende una dieta dissennata propostale da un cinico medico: a base di anfetamine, di cui lei ignora i terribili effetti. Intanto, il figlio Harry intraprende, insieme all’amico Tyrone, un traffico di droga che si rivela inizialmente molto proficuo: la disponibilità della stessa è sempre ampia e variegata, il guadagno è facile e può consentire ad Harry e alla sua Marion di accarezzare il sogno di quest’ultima di aprirsi un negozio d’abbigliamento per affrancarsi dal degrado della periferia. Tutto sembra procedere per il meglio, fin quando l’estate dura. Con l’avvento del malinconico autunno iniziano i primi problemi, che stravolgono i piani dei quattro mostrandone la caducità. Gli effetti delle anfetamine iniziano ad assillare la povera Sara, preda di allucinazioni che ne minano la già precaria condizione di donna sola e dimenticata: il frigorifero sembra muoversi fino al punto di esplodere come una bomba di cibo caricata da una folle astinenza dovuta alla dieta; la tv è sempre più reale, a tal punto da diventare la porta d’ingresso verso il suo salotto degli interpreti dei programmi televisivi a cui ossessivamente e impazientemente Sara aspira. Essi sono un incubo che si materializza nelle allucinazioni: ghignano in modo sgargiante, puntando gli indici verso una donna inadeguata rispetto a standard di perfezione estetica e condizione sociale di cui la tv è espressione ma che ella disattende. Intanto, la strada aspra fuori dalle anguste mura di casa Goldfarb è testimone del fallimento degli affari narco-commerciali di Harry e Tyrone. Quest’ultimo viene coinvolto accidentalmente in una guerra tra bande e finisce in carcere. Per il suo rilascio, Harry è costretto a sacrificare tutta la somma di denaro ricavata dallo spaccio. Contestualmente a questa privazione economica, un altro evento segna i loro destini: i trafficanti decidono di togliere l’eroina dalla circolazione per un po’ per poi iniziare a rivenderla a prezzi più alti. E’ la fine dei loro affari, ma anche l’interruzione di una costante somministrazione di droghe a cui i loro deboli corpi si sono abituati. La crisi d’astinenza logora il rapporto umano tra Harry, Tyrone e Marion, oltre a scaturire devastanti scenari personali: Harry trascura una impressionante infezione al braccio sinistro, Tyrone è in balia di una straziante nostalgia della madre che non vede da anni e che gli procura carenze affettive incolmabili, Marion decide di vendere il suo grazioso corpo per procurarsi la droga. L’abisso è ormai all’orizzonte, inizia a manifestarsi quando Harry e Tyrone intraprendono un viaggio in Florida per acquistare una grossa partita di droga a prezzi vantaggiosi rispetto al mercato di New York. Tuttavia, il braccio di Harry è ormai in condizioni disperate e dunque, sulla via del ritorno, i due sono costretti a fermarsi in un ospedale, dove la polizia scopre il loro carico e li arresta. Il tetro inverno incombe e il destino amaro è ormai inevitabile: dopo l’ennesima paranoia, Sara esce da casa e, in preda a deliri, si reca agli studi televisivi per chiedere come mai ancora non sia stata chiamata ufficialmente per partecipare al programma. Il personale si accorge del suo stato e la fa portare in un ospedale psichiatrico, dove le viene applicato un elettroshock che le azzera definitivamente ogni facoltà mentale. Un modo rapido ed efficace da parte del sistema per liquidare un ingombrante vittima che lo stesso sistema ha creato: espressione tipica della società usa e getta. Intanto, Tyrone torna in carcere e viene sottoposto a lavori forzati di una crudeltà resa ancora più evidente a causa del suo colore della pelle nero, il quale rievoca ed esaspera sentimenti razzisti dei secondini atavicamente insiti nell’animo americano. Marion entra in una spirale convulsa di tossicodipendenza che ne fa oggetto di un noto trafficante, il quale la porta a prostituirsi in modo sempre più spinto per soddisfare perversioni dell’alta società a cui la criminalità, nel sottobosco notturno, vende evidentemente i suoi dissoluti servigi. Infine, Harry è costretto a subire in ospedale un intervento chirurgico volto ad amputargli il braccio massacrato da un’infezione dovuta all’eccesso di iniezioni endovena di eroina. Il suo pianto post-operazione nel ricordo struggente di Marion, simbolo di un amore ormai dissipato, dà il senso della disperazione che conclude il film. Un senso di disperazione che affonda le radici nella società americana e che il regista ha espresso con estrema franchezza. La destrutturazione dei legami sociali è, del resto, prodotto tipico a stelle e strisce, che trova compimento in quegli anonimi agglomerati urbani che celebrano il trionfo dell’individualismo e la ricerca di modelli omologanti e di dipendenze per sfuggire alla conseguente solitudine: la droga e la tv, come nel caso dei protagonisti di questo film. Il dramma è che il colonialismo culturale ha esportato su scala universale questa cultura, coinvolgendo nella disperazione di una vita alienante anche popoli anticamente aggregati da sani vincoli comunitari. Per sfuggire ai pericoli dai quali racconti come Requiem for a Dream, nella loro durezza, ci mettono in guardia, occorre rifiutare le sirene dell’individualismo e dell’omologazione a cui quotidianamente siamo sottoposti. L’imperativo è riaffermare le nostre individualità nell’unico contesto in cui possono arricchirsi ed esprimersi in modo organico e liberamente: la comunità. Ovvio che per edificare bisogna partire dalle fondamenta, è dunque d’obbligo riconsegnare la dignità che spetta al sacro valore della famiglia, cardine primo della società.
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domenica 29 maggio 2011
Requiem per un sogno… americano.
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