lunedì 16 maggio 2011

Moby Prince. Una nebbia che dura da vent'anni.


Il nome Moby Prince suscita il ricordo di quanto avvenne durante la tarda serata del 10 aprile 1991, un ricordo di una delle tragedie più tristi - l’ennesima oscura - della storia recente d’Italia. Il traghetto denominato Moby Prince proveniente da Olbia ormeggiava giusto a qualche chilometro dal porto di Livorno, quando il suo tragitto si arenò per sempre nel momento in cui una collisione con la petroliera Agip Abruzzo generò un’esplosione dagli effetti nefasti: tutti i passeggeri del traghetto tranne un giovane mozzo morirono carbonizzati. Lo scorso 10 aprile, a vent’anni di distanza, stampa e tg hanno rievocato l’episodio con magri servizi ridotti all’essenziale, privi d’ogni minimo intento di dipanare la fittissima coltre di mistero elevatasi intorno alla tragedia nel corso di questi anni. Non una seria inchiesta giornalistica che, partendo magari dalle pagine di qualche quotidiano o dal tubo catodico, fosse stata capace di produrre nell’opinione pubblica spunti di riflessione, di discussione e, infine, di pubblica denuncia. Sì, è di denuncia che si deve parlare quando, a fronte della morte di ben 140 persone e di un disastro ambientale per il Mar Tirreno, l’iter giudiziario che dovrebbe assolvere la funzione d’indagine lascia più di qualche perplessità, a cominciare dai tempi record con cui la prima commissione istituita dalla Capitaneria di porto di Livorno chiude frettolosamente le indagini: in undici giorni. La sentenza ritiene questo misero arco di tempo sufficiente per sentenziare circa la causa dell’incidente: errore umano. Eppure, a ben vedere, quello che è ormai ufficialmente identificato come un episodio accidentale mostra una serie di strani ed inquietanti punti interrogativi, tipiche tracce che emergono là dove vi siano verità che la ragion di Stato consiglia di nascondere. Anzitutto, dalle perizie sui cadaveri si evince che il ritardo nei soccorsi sia stato l’elemento decisivo per il bilancio finale del disastro. In un primo momento, tutti i mezzi di soccorso si dirigono verso l’Agip Abruzzo, consentendone il salvataggio dell’intero equipaggio; la totale indifferenza verso la Moby Prince va ricollegata al fatto che l’SOS inviato via radio giunge alla Capitaneria di porto in modo debolissimo e disturbato, per motivi ancora mai accertati. Inoltre, dalla registrazione radio della comunicazione con la Capitaneria, emerge un’eloquente affermazione del comandante della Agip Abruzzo che, tuttavia, non verrà mai approfondita dalla magistratura nel corso delle inchieste: “…sembra una bettolina quella che ci è venuta addosso…” . Strano a dirsi che la Moby Prince, una nave di 6187 tonnellate, lunga 130 metri e larga 20 possa essere scambiata da un esperto uomo di mare per una bettolina, ossia per una piccola imbarcazione. Evidentemente l’Agip Abruzzo il suo devastante impatto, che ne provocherà la fuoriuscita e la dispersione di migliaia di litri di petrolio in mare, lo ha, almeno in un primo momento, con un mezzo diverso dalla Moby Prince, molto più piccolo di quest’ultima e sfuggito misteriosamente ai radar delle due navi ufficialmente coinvolte e della Capitaneria stessa. I soccorsi sono talmente ritardatari che i primi a giungere in aiuto della Moby Prince sono due ormeggiatori di una piccola nave da pesca, i quali riescono a mettere in salvo l’unico supersite, ossia il giovane mozzo, che urla loro che ci sono ancora molte persone vive all’interno della nave da mettere in salvo. I due ormeggiatori avvertono la Capitaneria, eppure neanche questo esplicito sollecito sortisce alcuna mobilitazione da parte dei soccorsi. Addirittura, una motovedetta della Capitaneria arrivata sul posto “indugia” clamorosamente restando immobile di fianco alla Moby Prince. Inoltre, quando il mozzo in condizioni disperate finalmente viene caricato su questa imbarcazione al fine di farlo portare in ospedale, la stessa ritarda inspiegabilmente per oltre mezz’ora, provocando un grave deterioramento delle sue condizioni fisiche, prima di ripartire alla volta del porto.

Questi elementi dai tratti enigmatici si ricollegano ad un’altra scomoda verità che riaffiora a seguito di un’inchiesta coraggiosa di Panorama: la presenza di navi militari nei pressi del luogo dell’incidente. L’inchiesta farà sì che nel 2006 verranno riaperte le indagini, chiuse in primo momento nel 1997 con l’assoluzione di tutti gli imputati, generando nuovi spunti per iniziare a trarre una lettura un po’ più definita di quanto avvenuto intorno a questa tragedia. Ecco cosa se ne ricava: navi militari americane più una francese quella notte, poco dopo le 22, stavano trasportando ingenti quantità di materiale bellico, compreso esplosivo, proveniente dalla base americana di Camp Darby, in Toscana. Un trasporto eccezionale e di estrema pericolosità, un’operazione segreta che non risulta autorizzata dalla prefettura di Livorno e quindi assolutamente illegale. Il Dipartimento di Stato americano, con l’impassibilità che contraddistingue gli statunitensi ogni qual volta aleggiano ombre sull’operato del proprio esercito, ha sempre negato la presenza di proprie navi militari, ammettendo invece vi fossero sul posto cinque navi mercantili. Eppure, la sicumera americana stride alquanto con una serie di lati oscuri mai realmente approfonditi: primo; una testimone, Susanna Bonomi, afferma di aver visto attraccare al porto di Livorno in quei momenti concomitanti con la collisione la nave Octobar II, peschereccio statunitense che qualche anno dopo comparirà in un’inchiesta proprio per traffico d’armi, con la Somalia, quella alla quale lavorava la giornalista Ilaria Alpi prima di essere uccisa. Secondo; la sospetta contraffazione dell’unico filmato amatoriale girato da bordo e recuperato nel relitto della Moby Prince. Terzo; le testimonianze rese da più persone che convergono circa l’avvistamento di un elicottero militare che ha volato a luci spente sopra il luogo dell’incidente per almeno una decina di minuti. Quarto; la ritrosia ingiustificata delle autorità militari americane a consegnare alla magistratura italiana le foto satellitari rivelate quella notte. Quinto; le inchieste che dimostrerebbero come i soccorsi siano stati volutamente ritardati da parte della Capitaneria di porto per consentire alle navi americane di sparire dalla scena. Sesto; il fatto che il relitto del Moby Prince, posto sotto sequestro nel porto di Livorno, nel ’98 quasi si inabissò senza un motivo apparente, salvo poi essere recuperato, stranamente dissequestrato e avviato allo smaltimento, sebbene fosse il più importante reperto a disposizione degli inquirenti, da entità ancore incerte (c’è chi sostiene si tratti della Camorra). Sei lati oscuri a cui se ne aggiunge di diritto un altro, nondimeno sospetto: ad avvalorare la tesi giudiziaria dell’errore umano la poca visibilità dovuta ad una folta nebbia. Dunque, questa lettura è stata ufficialmente accettata dalla magistratura, sebbene a suo discapito vi siano le esplicite dichiarazioni rese dal capitano della Guardia di Finanza Cesare Gentile, a capo di una motovedetta dei soccorritori uscita dal porto di Livorno intorno alle 22:35: “in quel momento c’era bellissimo tempo, il mare calmissimo e una visibilità meravigliosa”.

Come se non bastasse questa serie di dubbi a rendere confuso il quadro di questa tragica vicenda, qualche anno fa, proprio a breve distanza dalla riapertura dell’inchiesta del 2006, entra in scena una figura poco nota ai più, eppure fondamentale al fine di comprendere che razza di sporco affare sia questo. Il nome poco noto è quello di Fabio Piselli, ex paracadutista e consulente tecnico che si è occupato dell’affondamento della Moby Prince, assumendo sia l’ufficio di testimone che quello di parte offesa. Il suo contributo alle indagini (con tanto di spinose testimonianze) gli è valso le attenzioni di alcuni ignoti soggetti a volto coperto che nel 2007, muovendosi nel buio della notte, lo aggredirono, lo drogarono, lo rinchiusero nella sua macchina a cui diedero poi fuoco. Scampò alla morte per un soffio, ma Piselli sostiene che queste oscure entità non abbiano poi cessato di incalzarlo, essendogli pervenuti diverse volte consigli a meditare un onorevole suicidio piuttosto che uno scomodo omicidio. E’ d’uopo rammentare il ruolo di questo ex servitore dello Stato anche nelle indagini su di un altro tenebroso mistero italiano: il mostro di Firenze. In questo caso egli è indagato per violazione del segreto d'ufficio rispetto al contenuto di alcune intercettazioni alle quali ha partecipato, condotte contro degli indagati dalla Procura di Perugia. E’ questa un’altra questione aggrovigliata, che meriterebbe un ampio spazio a parte, nelle cui indagini si è assistito negli anni ad un susseguirsi di colpi di scena: inquirenti che diventano indagati, intercettatori che sono intercettati, poteri occulti, mostri e mostruosità esoteriche. La figura di Fabio Piselli si colloca in questo vortice paludoso. Un personaggio scomodo, doppiamente scomodo. Un personaggio di cui qualcuno vorrebbe sbarazzarsi, in quanto contraddistinto da uno spiccato senso della giustizia che mal si innesta nel nostro sistema giudiziario e nel nostro sistema mediatico, ambienti fitti di ombre e conniventi con quel meccanismo che fa del depistaggio e dell’intimidazione le proprie fondamenta. Le fiamme assassine che incenerirono una nave e i suoi 140 passeggeri appaiono la recrudescenza delle fiamme provocate, qualche decennio prima, da quei bombardamenti alleati che sancirono la fine della nostra sovranità nazionale. Intorno alla vicenda Moby Prince, a vent’anni di distanza aleggia ancora un silenzio assordante di cui la base di Camp Darby è l’epicentro.



 


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