giovedì 4 novembre 2010

2010: odissea in Afghanistan.


Che l’Afghanistan sia un teatro di sangue e lutti non è certo una novità, neanche per lo spettatore più distratto di quel frullatore qual è il contenitore catodico; ma quando a lasciarci la pelle sono i soldati italiani le attenzioni mediatiche, naturalmente, si intensificano intorno alla questione della missione militare che dal 2004 vede coinvolta anche l’Italia e, a dispetto delle incoscienti previsioni iniziali da parte dell’amministrazione americana, non sembra prospettare epiloghi proficui e pacifici, almeno nel breve termine. Non abbiamo mai dedicato particolari attenzioni, tali da indurci a preparare un articolo, alle tragedie che in passato hanno riguardato dei nostri connazionali, sebbene il rammarico fosse molto sentito e la rabbia impellente all’idea di giovani vite italiane sacrificate sull’altare non della difesa patria, bensì degli interessi di un imperialismo che proprio delle identità culturali si fa beffa, dispensando in ogni dove il credo all’unico dio del libero mercato e la sua imposizione all’appiattimento consumistico. Stavolta però vogliamo fermarci a riflettere, perché l’ennesima strage che ha coinvolto degli italiani (il numero dei connazionali rimasti uccisi in Afghanistan è ora salito a 34 - dei quali 21 negli ultimi due anni - che si somma alle migliaia di altre vite, tra civili e militari, che questo sanguinoso conflitto ha portato via) non sembra voler esaurire la propria scia mediatica dietro allo sciacallaggio televisivo di quei format che si nutrono come iene dell’emotività creata dal lutto e allo stucchevole atteggiamento delle istituzioni che ogni volta recitano la propria retorica come un disco registrato. Stavolta, le vite dei quattro giovani alpini periti nella località di Farah lo scorso 10 ottobre a seguito di un attentato non sono state sacrificate invano. No, purtroppo non è stato però un sacrificio votato ad una giusta causa: il cordoglio non ha prodotto alcun ripensamento circa la posizione dell’Italia nel contesto di questa missione né una sincera analisi di quella che è stata la strategia (fallimentare) finora usata e gli alti costi che la missione ha causato alle casse italiane; ciò che è stato deciso è di intensificare la portate bellica del nostro contingente militare armando gli aerei di bombe. Quello che indigna è che questi irresponsabili fautori di guerra, dal prudente ovile dei loro scanni in parlamento, possiedono la sfrontatezza di continuare a chiamare la missione afghana con un nome alquanto improprio. Ecco le parole del Ministro della Difesa Ignazio La Russa, promotore di questa iniziativa all’insegna del lancio di bombe: “La nostra missione resterebbe di pace. Se io lancio una bomba per difendere una colonna militare, rimane una missione di pace. Non è l’arma che qualifica la missione ma il modo con cui la usi”. Originale interpretazione, finanche farsesca, se non fosse terribilmente attinente al delicato tema bellico. Per tranquillizzare l’opinione pubblica lo stesso La Russa si esibisce nel contempo in un’ottimistica previsione circa quello che sarà il ritiro del contingente italiano dall’Afghanistan, destando un certo stupore tra quanti, a ragion veduta, si sono fatti di quella terra un’idea di caos regnante: entro la fine del 2011 nessun militare italiano presiederà più le aride strade afghane. Peccato però che nelle stesse ore arriva da un corrispondente giornalistico una soffiata, filtrata dagli uffici del Ministero della Difesa, su quelle che sono le reali speranze legate al ritiro: anno 2014, salvo lasciare alcune centinaia di “istruttori” all’esercito afghano fino a data indefinita. Insomma, al di là delle frasi di circostanza - e di propaganda - sputate dai politici a mo’ di slogan elettorali, la questione rimane piuttosto spinosa e il tempo non fa altro che aggrovigliarla. Se la data del 2014 verrà confermata - o se addirittura bisognerà correggerla per un termine più in là a venire, visto che l’ultimo che è uscito vincitore dal pantano afghano è stato Alessandro Magno 2300 anni fa - quella afghana rischia di diventare la più lunga campagna militare affrontata dall’esercito italiano dall’unità d’Italia ad oggi. C’è però una sinistra differenza rispetto al passato, che fa delle cosiddette “missioni di pace” un unicum nella storia bellica dell’umanità. Differenza che consiste nella percezione che i cittadini hanno di questa guerra: se un tempo essa era un fardello che si scontrava quotidianamente sulla pelle dei civili italiani e ne minava la sopravvivenza, oggi è un concetto astratto, lontano, riguardante direttamente soltanto coloro i quali hanno scelto di entrare ad ingrossare le file dell’esercito per professione e che, per impinguare stipendi altrimenti troppo magri, decidono di aderire a queste missioni in paesi lontani, consci dei rischi che ne conseguono. Questa condizione di distacco fa sì che l’italiano medio, avulso dal contesto bellico e dai suoi tragici effetti (a meno che non ricadano sulla salute dei propri famigliari), non arrivi mai ad esprimere in modo forte e chiaro la propria contrarietà alla missione, poiché, appunto, non coinvolto in prima persona. La questione è delicata, perché consente ai governi in carica di protrarre la propria subalternità alle esigenze atlantiche senza doversi scontrare con manifestazioni di dissenso interne al paese, così da poter fornire - in linea con il proprio ruolo da colonia - altra carne da cannone alla causa geopolitica americana. A renderci ancora più inermi rispetto a questa spirale di sangue che inghiottisce giovani vite italiane vi è l’operazione infida condotta con sempre maggior profitto dalle TV, quella di distrarci dall’approfondimento dei problemi reali fornendoci una bulimia di informazioni dalla percezione immediata - sovente sensazionalistiche, atte a sollecitare l’emotività dello spettatore - tali da banalizzare i concetti più seri, compresa la morte. Il tubo catodico guiderà le nostre coscienze a commuoversi mostrandoci le immagini delle bare coperte dal tricolore e lo sgomento di famiglie che avranno perso un loro caro; ma solo per qualche ora le luci dei riflettori illumineranno queste immagini di dolore, fin quando la monotonia non avrà stufato e sarà cura dei media quella di trovare una nuova notizia abile a risvegliare la soglia d’attenzione voyeuristica degli italiani: forse un nuovo giallo, forse una nuova “follia ultrà” o forse un nuovo caso di discutibile giornalismo d’inchiesta. Almeno, fin quando qualche d’un altro dei nostri non morirà ancora in quelle terre lontane, per mano di misteriosi assassini, per scopi di cui noi, povere vittime della menzogna globale, ignoriamo i motivi…



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