giovedì 6 maggio 2010

Vulcano Eyjafjallajokull: l`eruzione ammonitrice.


Secondo la mitologia in tempi antichissimi, ancor prima che Roma nascesse, le popolazioni latine vennero terrorizzate dalla furia devastatrice di Caco, figlio di Vulcano.
Questo mostro a tre teste spendeva le proprie giornate in furti e sputando fuoco a destra e a manca, salvo ritirarsi a sera nella propria residenza, una sordida grotta dell’Aventino. Le malefatte di Caco non sembravano a quei tempi conoscere ostacoli, sennonché il fato decise un giorno che a porre fine dovesse essere la virtus dell’eroe per eccellenza: Ercole.
Quest’ultimo, di passaggio lungo le coste tiberine, venne fatto oggetto del furto nascosto di alcuni buoi della propria mandria da parte di Caco. Ercole si accorse del luogo in cui Caco alloggiava con la propria refurtiva, riconoscendo i muggiti delle bestie che provenivano dall’androne di una grotta all’Aventino. Egli dunque, deciso a riscattarsi dal torto subito, spostò l’enorme masso che fungeva da grata ed entrò nella spelonca, laddove uccise il ladro e liberò le popolazioni latine dal terrore che la presenza di Caco aveva provocato. In onore dell’eroe venne costruito dal re Evandro un tempio, tutt’oggi presente, vicino al Tevere, tra l’Aventino e il Palatino, nel cosiddetto Foro Boario. Attraverso la costruzione di un tempio venne dunque ascritto il mitico episodio nella storia, ad imperitura memoria permane l’azione risolutrice della divinità eroica.
Tuttavia, mentre nel Lazio si temeva che i crimini di Caco potessero prima o poi prendere il sopravvento e devastare totalmente i villaggi sui quali il mostro si accaniva, verosimilmente, a pochi chilometri di distanza l’eco dei tristi eventi fu pressoché nulla. Del resto, gli effetti delle scorribande all’insegna del fuoco e del furto di Caco non si propagarono oltre i confini dei villaggi che conobbero tali devastazioni sulla pelle dei propri abitanti.
Il motivo è presto spiegato: i popoli in quei tempi antichissimi possedevano la padronanza ognuno dei propri destini, possedevano la propria specificità e, soprattutto, non v’era ancora traccia di quel farraginoso sistema universale che ha trasformato il nostro pianeta in un complicatissimo macchinario pieno di ingranaggi. Se uno di essi si inceppa, il sistema si fonde e noi, vittime designate poiché mai emancipati dalla sua dipendenza, ne subiamo le conseguenze, più o meno gravi a seconda della portata dell’evento.
Abbiamo citato l’esempio del Lazio pre-romano, avvalendoci volutamente di un episodio mitologico per dare un maggior risalto alla differenza tra lo ieri remoto e l’oggi, ma in nostro conforto ci giunge un riscontro - inerente sempre al furore vulcanico - di un passato molto più recente, adatto a confrontarsi con quanto avvenuto il mese scorso in Europa, nella fattispecie nei suoi cieli.
Per due volte nel diciannovesimo secolo, precisamente nel 1821 e nel 1823, il vulcano islandese Eyjafjallajökull fu protagonista di violente eruzioni che, oltre a regalare un disarmante ed inquietante spettacolo agli abitanti della lontana isola nordica, riempì i cieli di tutta Europa di cenere. La nube cinerea avvolse dapprima il Nord, propagandosi poi nei giorni a venire in tutto il continente. Che risonanza ebbe l’eruzione al di fuori dell’Islanda? Nessuna. Forse, soltanto diverso tempo dopo per mezzo del sentito dire, la notizia ebbe accesso agli orecchi di qualche cittadino europeo.
Lo stesso vulcano il 20 marzo scorso, dunque a quasi due secoli di distanza, si è risvegliato, e lo ha fatto con le medesime prerogative: esplodendo con la violenza di allora. Stavolta però, a differenza di allora, la risonanza ha avuto ben più ampia eco: i media occidentali hanno dedicato all’evento, o meglio, agli effetti che l’evento ha provocato, gran parte delle loro attenzioni per diversi giorni.
Le ceneri, propagatesi ovviamente, essendo la natura estranea ai mutamenti che l’uomo impone alle proprie opere artificiali, con eguali modalità ed in egual misura di quanto fecero nell’800, hanno bloccato per circa una settimana il traffico aereo, così paralizzando l’Europa e parte del resto del mondo. Ci rimarranno impresse in mente le immagini degli aeroporti improvvisamente trasformati in enormi accampamenti di gente disperata, passeggeri di aerei i cui voli venivano cancellati a causa dell’impossibilità di muoversi tra i cieli invasi dalla cenere, finanche le incredibili traiettorie di viaggio - in treno o in auto blu - che politici ed altre alte cariche di turno si sono visti costretti a dover affrontare per raggiungere i luoghi dei loro improrogabili impegni. Enormi masse di uomini costretti ad accamparsi alla bene e meglio in ogni angolo d’Europa, o a stravolgere le proprie comode abitudini, a causa delle bizze infuocate di un imperioso e impassibile ghiacciaio islandese. Inoltre, enormi flussi di denaro, quotidianamente abituati a muoversi avidamente entro i confini del mondo liberista, finalmente bloccati. Quanto avvenuto in quella settimana di aprile ci dà la misura dello spaventoso grado di frenesia che fa da ministro alla vita di tutti i giorni dell’uomo moderno. Un sistema convulso, quotidiano protagonista dello spostamento di uomini, veloce ed ineffabile, che si regge sul precario equilibrio di tutti gli elementi della terra, non solo di quelli costruiti dall’uomo ma anche di quelli della natura. E’ bastato lo schiocco di quello che in una cartina geografica rappresenta solo un minuscolo braciere situato lassù, in uno strano anfratto isolano d’Europa che emerge da freddi mari, per sconvolgere il sistema e minarlo alle sue basi. E’ bastato un sbuffo di vulcano per mettere in ginocchio il turbo-capitalismo: la natura che umilia con gesto serafico ma perentorio la superbia umana. E’ bastato ciò per farci comprendere quanto precaria sia la conduzione della nostra vita, per farci comprendere l’estremo bisogno dei continui spostamenti, delle migrazioni; l’uomo, ramingo contemporaneo, fonda la propria ragion d’essere su questo delirio di movimenti, sul nomadismo estremizzato che lo fa turista, lo fa imprenditore, lo fa manager, lo fa pendolare, lo fa insomma costretto a spostarsi su vasta scala sino a fargli perdere un punto di partenza, finanche l’origine di se stesso.
L’uomo ha voluto piegare il mondo a questo bisogno zingaro e isterico al tempo stesso che si è auto-imposto ed ha finito per perdere un centro, un riferimento. Tutto è votato al profitto, al continuo alimentare questa propensione al movimento impazzito a tal punto da non lasciar spazio alla contemplazione che il benché minimo inceppamento possa causare danni irreparabili. Basti pensare al nostro caso: gli aeroporti vengono ideati per un traffico aereo di grosse proporzioni, implicando la presenza quotidiana di quantità straordinarie di uomini, ma non vengono studiate le eventualità che qualche calamità possa improvvisamente costringere alla sospensione del traffico aereo e, dunque, non si lavora su soluzioni d’emergenza. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la trasformazione di questi modernissimi agglomerati di cemento in un qualcosa di molto simile ai campi profughi. L’uomo, ridotto a questa infinita condizione di mobilità, ha finito per trasformarsi da mangiatore di tempo a mangiatore di spazio: se in passato gli anni, i decenni, perfino i secoli passavano senza conoscere grandi mutamenti nella conduzione di vita dell’uomo, oggi il frenetico sviluppo tecnologico ci propone continui e assidui cambiamenti e l’ampio volume di traffico comporta una mole di spostamenti, anche da un capo all’altro del globo, oramai incontrollabile. Se nel passato tramandare valori era più facile, un gesto sacrosanto e del tutto naturale, che poteva avvenire senza che i cambiamenti lo impedissero proponendo nuove morali; oggi a repentaglio è messo lo stesso contatto fisico con la terra che custodisce le nostre radici, recise le quali non ci resta che questo vagare indegno e senza meta, in balia degli eventi e non più padroni del nostro avvenire.
Se gli antichi riuscivano a stabilire un rapporto di armonia con la propria terra, a prevedere e dunque a prendere le contromisure rispetto ai cataclismi della natura (magari spiegando il tutto attraverso il mito, dal dio Vulcano a Caco, ma più semplicemente approcciandosi ad ogni creazione di Dio con spirito umano e non con empia autorità arrogante e distruttrice), oggi i nostri contemporanei fanno affidamento alle sole divinità che il loro animo corrotto conosce: gli ottusi concetti di progresso, che si basa sull’utilizzo imprescindibile di ermetici strumenti tecnologici, e di profitto, che non conosce altro intendimento che non sia il vil denaro.
Dalle viscere della terra nella solitaria e antica isola d’Islanda un fremito ancestrale ha scosso le arroganti convinzioni dell’uomo moderno: un tripudio di fuoco e una nube di cenere sono il monito che dovremmo ascoltare con ridestata umiltà.


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