giovedì 27 maggio 2010

LA MARCIA DELL’IPOCRISIA.


Di Andrea Fais, tratto da Rivista Strategos

Anche quest’anno, il consueto appuntamento con la Marcia della Pace Perugia-Assisi non è passato in secondo piano. Il senso più intimo di questa manifestazione politica ha sempre recato in sé un obiettivo di enorme portata: sensibilizzare la pubblica opinione alle tematiche della guerra e alla necessità della pace come risposta e soluzione.



Da molto tempo, come era prevedibile, questo evento viene monopolizzato dalla sinistra politica e dalle sigle del suo ambiente di riferimento, oltre che da un certo associazionismo cattolico. Questa edizione è stata contrassegnata da un cielo plumbeo e scuro, che ha fatto da perfetto scenario ad una manifestazione triste e sterile. La presenza di Rosy Bindi e di numerosi esponenti locali e nazionali del PD, ha, come di consueto, calamitato l’attenzione della stampa.



Nell’ormai inutile sfilata di delegazioni palestinesi “democratiche” o di improbabili pacifisti israeliani, la presenza che ha costituito la vera novità di quest’anno è senz’altro quella di alcuni membri del movimento di sostegno all’opposizione iraniana.



La verdognola squadriglia all’interno del corteo ha nuovamente diffuso tra i partecipanti il materiale di quella che – ormai è noto – rappresenta a tutti gli effetti la frangia politicizzata e violenta della borghesia imperialista e filo-occidentale di Tehran.



La pace allegoricamente sfilata lungo i circa trenta chilometri che intercorrono fra il capoluogo di regione e la cittadina di San Francesco, ricorda molto da vicino la pax americana, o meglio, quella pace borghese che in un secolo di storia ha mostrato al mondo tutto il suo ipocrita fondo di realtà, traducendosi nelle forme sociali più reazionarie e retrive: dall’idealismo democratico propagandato per quasi due secoli attraverso il pesante ruolo che certi intellettuali (veri o presunti) della borghesia, hanno avuto nella società, al corporativismo messo in atto da oligarchie economico-finanziarie nazionali o internazionali, la complessa e sofisticata struttura logistica dell’imperialismo, sembra inarrestabile tanto da riuscire a divorare persino i consensi di intere fette di uomini e di donne in buona fede.



I diritti umani, le libertà civili o le stesse libertà politiche sono diventati le nuove parole d’ordine delle forze imperialiste, che ne hanno sapientemente modificato la sfera semantica. L’ingerenza, l’invasione, la colonizzazione hanno conosciuto nuove forme di realizzazione, molto più implicite del passato. La storia degli ultimi quaranta anni ci ha mostrato nuove tattiche della strategia imperialista. Sempre più raramente, infatti, la conquista o l’assoggettamento degli Stati e dei Popoli, avviene attraverso azioni militari consistenti e di lunga durata, e, anche qualora vi fosse un diretto scontro di forze, la sua descrizione pubblica viene rivestita di un involucro mediatico, capace di edulcorarne il contenuto, presentandolo sotto una forma di accettabilità, dinnanzi alle masse occidentali. La “pace” e le “ragioni umanitarie” diventano così le parole-chiave di un fantomatico neo-linguaggio democratico occidentale, col quale aprirsi varchi di capillarizzazione comunicativa e di consenso politico globale.

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