Tra gli autori illustri del pensiero socialista italiano, il nome di Arturo Labriola è indubbiamente fra i meno citati. Eppure il pensatore politico napoletano ha traghettato forse per primo all’interno di quello che possiamo considerare il nostro patrimonio culturale, il grande contributo culturale del Socialismo ottocentesco francese di Proudhon e Sorel. Nato nel 1873 a Napoli, Labriola fu uno dei più attivi teorici e agitatori del Socialismo italiano di fine Ottocento.
Accanito e famelico lettore delle opere di Marx ed Engels, fu costretto all’esilio per sfuggire all’arresto, stabilito in seguito ai moti del 1898. Espatriato prima in Svizzera e poi in Francia, cominciò ad avvicinarsi all’opera di Georges Sorèl, proprio nel periodo a cavallo tra i due secoli. Dopo dissidi interni con la direzione Turati, nel 1902 fondò a Milano la rivista Avanguardia Socialista, dalle cui pagine non mancò di manifestare il suo favore all’interventismo e in generale l’affermazione nazionale in senso strategico e geo-politico. L’idea di base del nostro pensatore nel frattempo aveva rivisto criticamente l’impostazione dialettico-materialistica del Marxismo, che nella propria concezione dogmatico-scientifica avrebbe, entro breve, in qualche maniera dominato quasi tutta la cultura comunista italiana ed europea della prima parte del Novecento.
Sostanzialmente vicino alle critiche espresse a Karl Marx, da Proudhon in Filosofia della Miseria e da Sorel in Riflessioni sulla violenza e in Le illusioni del progresso, Labriola ritrova in quel "mito sociale" dell’autogestione operaia priva di mediazioni partitiche e della sua progressiva emancipazione rivoluzionaria in senso tecnico e morale, la costruzione di una rinnovata e grandissima entità sociale definita dall’idea di una Nazione del Lavoro, costruita sulle fondamenta di una nuova concezione nei rapporti produttivi, che preveda la cogestione e la cooperazione tecnica e creativa nel processo industriale. Superando il positivismo tanto nella propria forma plutocratica capitalistica (padrone – operaio – padrone) quanto nella propria forma collettivista marxista (padrone – dittatura proletaria – messianismo collettivista), Labriola intendeva distruggere il Capitalismo e lo sfruttamento del Lavoro ed evitare di scivolare nella riduzione dell’entità sociale ad astratta massa globalizzata e rieducata dalla burocratica e oppressiva costrizione di uno Stato-partito.
Questa idea lo portò a rientrare in Italia nel 1935, dopo la sua fuga all’avvento del Regime fascista nel 1922, sostenendo la causa del Duce e affiancandosi a Nicola Bombacci come collaboratore del mensile La Verità, da lui fondato, edito e diretto. Proprio dalle colonne del periodico divenuto un simbolo per tutta l’ala rivoluzionaria e socialista del Fascismo, Labriola intendeva ribadire quelle che erano le sue tesi di emancipazione di tutte le classi sociali dalla logica del meramente economico-materiale, per realizzare quello Stato Nazionale del Lavoro, quell’Italia proletaria che nella Repubblica Sociale avrebbe trovato, pur per pochissimo tempo e in tragiche coincidenze storiche, la propria massima concretizzazione.
La socializzazione dell’economia rappresentò non solo quella che Bombacci stesso definì la riscossa operaia e contadina più autentica, completando ciò che il bolscevismo aveva solo iniziato ma mai concluso, ma anche l’affermazione di un nuovo modo di concepire l’economia, secondo una visione che mettesse al centro dell’attività l’uomo ed i suoi bisogni, la comunità nazionale e le sue necessità. Proprio negli anni Trenta, il socialista napoletano, evidenzierà come al centro dell’iter dello sfruttamento si trovino gli accumuli finanziari del grande capitale, le concentrazioni geopolitiche, l’abbassamento delle tutele e la disgregazione etnica delle comunità nazionali e tradizionali.
A distanza di settanta anni possiamo dire che ci aveva proprio azzeccato.
Associazione Culturale Tyr Perugia
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