lunedì 15 giugno 2009

Aristocratici e pop.




La matrice futurista del recente impatto mediatico di gruppi politici e di correnti culturali un tempo marginalizzati è fenomeno osservabile da un certo numero di anni in Italia. Francesco Mancinelli, in un recente intervento su Il Fondo, faceva notare come la seduzione dell’immaginario giovanile metropolitano - estetiche, gestualità, riti- esercitata da settori dell’area ‘nazionalrivoluzionaria’, stia forzando gli stessi diretti contendenti della ’sinistra radicale’ a dismettere i vecchi pastrani post-resistenziali per misurarsi con vestigia aliene, anche di singolare fattura esistenzial-ideologica. Pure temi di natura fortemente sociale, libertaria ed ecologista sembrano ritornare più fortemente che mai ai movimenti politici della ‘destra radicale’ mentre, alcuni ambienti marxisti, vanno riscoprendo la centralità delle tematiche nazionalitarie nazionaliste e identitarie e rilevano, come nel caso di Costanzo Preve, la natura antipositivistica - ed in ultima analisi antiprogressista- del proprio marxismo: riconoscendo finalmente la legittimità di quelle vie conoscitive, prima altezzosamente negate, rispondenti all’innata esigenza metafisica dell’uomo.



pop_fondo-magazineUn tempo citato finanche a dismisura, Julius Evola, forse il pensatore che maggiormente ha influenzato modelli di pensiero e scelte di vita dei giovani neofascisti, sembra esautorato delle funzioni totemiche assolte, per un buon mezzo secolo, presso ‘figli del sole’ di differenti orizzonti e generazioni. Di recente, un volumetto delle Edizioni di Ar - che hanno il merito di avere reso disponibile l’immensa opera pubblicistica evoliana del dopoguerra- intitolato Evola no-global? ha visto ribadire, dai commentatori invitati ad esprimersi intorno al quesito posto dal titolo, la sostanziale’intraducibilità’ delle proposizioni aristocratiche del Barone nel lessico politico degli ‘antagonismi’ di massa contemporanei. Questo pur riconoscendo, allo stesso Evola, il merito di avere lucidamente còlto ed interpretato le dinamiche globalistiche - e quindi intimamente dissolutorie- comprese nella modernità e di avere saputo interloquire, con sapienza e spregiudicatezza, con i più estremi esponenti del nichilismo contemporaneo, riconnetendovi un senso e un valore simbolico e di rottura - in Cavalcare la tigre - che dovettero spiazzare non di poco le zelanti torme clerico-fasciste dell’epoca.



In questo senso la scelta ‘futurista’ e iconoclasta da una parte e la tendenza ‘populista’ dall’altra rappresentano, a mio avviso, altrettanti tentativi di proiezione nella dinamica propriamente storica, da dove ci si avvertiva esclusi e in cui si ritiene, oggi, di dovere e potere a ragione rientrare senza troppi ingombri. Ugo Maria Tassinari, che riprende in un intervento altrettanto recente le ‘provocazioni’ di Mancinelli, attribuisce a CasaPound un’anima più estetica che politica, intercettando scenari individuati e suggeriti da Gabriele Adinolfi, e rilancia interrogandosi circa il rapporto dialettico tra potere e movimenti. Rimane, però, il quesito circa il ruolo che gioca, nel mutato agòne contemporaneo, l’opera e il pensiero del “filosofo proibito”, per usare la suggestiva quanto appropriata immagine che dà il titolo ad un’ottima monografia di Marco Fraquelli su Evola. L’opera di quest’ultimo rimane a tal punto complessa alta e frastagliata che risulta ancora inaggirabile, per più motivi, anche nell’arcipelago postmoderno dove si avviluppano e tendono a confondersi le radici del Novecento ideologico artistico e filosofico.



Se pure Evola, ad esempio, prese a un certo punto della sua giovinezza a detestare il Futurismo, indicandone le contaminazioni con una suggestione modernista e tecnocratica, infrarazionale ed estetizzante, che nel culto della macchina e della velocità denunciava un oscuro debito nei confronti dell’intuizionismo misticheggiante di Bergson - e, attraverso di esso, verso quelle forze “passate allo stato libero” di natura demònica- egli stesso aveva, però, intrapreso la sua carriera di pittore proprio presso l’atelier Balla e, proprio con Marinetti, finì con stringere un breve ma significativo rapporto di collaborazione. Si sa che il passaggio all’arte astratta, e segnatamente al Dadaismo, fece di Evola un avversario aperto e agguerrito dei Futuristi, che non mancarono di rendergli la pariglia a modo loro. Stà di fatto che Evola aveva percorso, con il consueto radicalismo, l’esperienza futurista prima e dadaista poi, segnalandosi come il più notevole interprete dell’ “esoterismo Dada”, come gli riconosce Massimo Cacciari. E da ultimo è proprio questa verve evoliana, questa cocciuta vocazione all’avanguardia, alla sperimentazione solitaria e intransigente, interiormente meditata e sofferta, a permanere intatta nelle cangianti vicissitudini del radicalismo “post-neo-post-fascista” italiano, continuando ad ispirarne vocazioni, atteggiamenti e peripezie.



La stoica disciplina dell’apolitìa, unita alla giovanile semenza nichilista, ricompare, secondo un’eterogenesi dei fini, a fecondare mondi lontani da quelli cui si rivolse direttamente in vita il filosofo romano. E se un tempo essa fu, da quegli ambienti, percepita come una cesura e un lascito pessimista da parte del Maestro, oggi forse essa si colora di una polifonia di riverberi e fosforescenze che non mancano di evocare nuove stagioni di resistenza e disordinazioni.



Articolo di Mario Cecere, tratto da: "Il Fondo".

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