Fabio Polese intervista Fabrizio Di Ernesto
(ASI) Il mondo arabo è in rivolta, ha sete di giustizia sociale. Il popolo di quelle nazioni ha preso coscienza dei propri diritti e si vuole sbarazzare di tutti quei despoti, spesso auspicati e/o tollerati dall’Occidente. E’ iniziato tutto dalla Tunisia, poi la protesta per il pane, ossia, al diritto ai bisogni primari, ha toccato l’Egitto per poi espandersi velocemente ad altre nazioni e comunità islamiche. Da qualche giorno anche la Libia, governata dal 1969 da Muhammar Gheddafi, è in rivolta, notizie si inseguono e non sempre sono attendibili o quantomeno verificabili. Scorrono nei telegiornali le immagini di Bengasi e delle altre città coinvolte negli scontri violentissimi, senza che non si arrivi a vedere in prospettiva una soluzione politica che non sia troppo traumatica per le popolazione libica e per le nazioni come l’Italia che hanno relazioni tradizionalmente strette economiche e culturali. Agenzia Stampa Italia ha incontrato Fabrizio Di Ernesto, giornalista e saggista, autore del libro “Petrolio, Cammelli e Finanza” edito da Fuoco Edizioni per porgli qualche domanda su quello che sta succedendo nel vicino Medio Oriente e per capire quali scenari futuri si potrebbero creare.
Per comprendere meglio gli affari e la storia tra Libia e Italia, lei ha scritto un interessante libro edito da Fuoco Edizioni dal titolo “Petrolio, Cammelli e Finanza”. Potrebbe questo testo aiutare ai lettori a comprendere quello che sta accadendo in questo momento in Libia?
Spero proprio di sì. Il mio saggio racconta la storia della Libia dal 1911, anno in cui l’Italia iniziò la colonizzazione e quindi tratta anche in modo esauriente gli ultimi 40, ovvero quelli che hanno visto Gheddafi salire e consolidare il proprio potere. A più riprese tratto anche il ruolo politico e commerciale che gioca oggi Tripoli sullo scacchiere mondiale che, a mio parere, offre buoni basi geopolitiche per capire chi realmente può avere interesse a destabilizzare il Paese traendone il massimo profitto. L’ultimo capitolo del mio saggio inoltre appare quasi profetico essendo incentrato sugli scenari futuri del paese nordafricano ed in cui analizzo anche le possibile conseguenze di una caduta del Rais sia volontaria, con il potere affidata ai figli, sia più cruenta con fine contemporanea di Gheddafi e della Jamahiryya.
I rapporti Italia-Libia quali effetti potrebbero avere con questa cruenta rivolta?
La prima e più scontata conseguenza sarà un aumento di petrolio e gas, non a caso è proprio di oggi la notizia che l’Eni ha chiuso il condotto Greenstream che da Wafa a Gela, passando per Mellrtah e Bahr Essalam porta in Italia il gas libico. Ieri inoltre in borsa tutte le grandi società italiane che hanno interessi libici o che vedono la Lafico, il fondo d’investimento statale libico, importante azionista hanno subito dei bruschi cali. A breve termine i rapporti economici potrebbero subire una frenata ma a livello politico credo che, una volta normalizzata la situazione tutto tornerà come prima. Per l’Italia la Libia ha un ruolo troppo importante per quanto concerne l’approvvigionamento energetico e nel contrasto all’immigrazione clandestina; sull’altro versante Tripoli non può fare a meno degli euro italiani e quindi se anche dovesse esserci un ribaltone Roma dovrà normalizzare quanto prima i rapporti.
Cosa potrebbe cambiare per gli Stati Uniti e per Israele?
Il Gheddafi odierno non è più il terrorista di Lockerbie. Oggi il Rais e la Libia sono stati pienamente inseriti nell’ottica occidentale. Nonostante ciò la caduta di un governo che dura ormai da oltre 40 anni farebbe il gioco di Washington e Tel Aviv. Gli Usa in particolare scottati da quando avvenuto nel 1979 in Iran ora sembrano più attenti nello scegliersi gli alleati ed hanno tutto l’interesse ad accerchiare Teheran. A parole lottano contro il fondamentalismo religioso ed in favore degli stati laici eppure ci si dimentica che l’Iraq di Saddam era uno stato laico e che le divisioni religiose sono iniziate dopo l’invasione atlantica. Difficile che un eventuale cambiamento non sia a vantaggio di Usa ed Israele magari proprio fomentando un divide et impera, anche in nome della religione, tra Tripolitani e Cirenaica come avvenuto nell’ex Yugoslavia.
E la Cina? Attenta osservatrice delle vicende globali, come sta vedendo le vicende del Medio Oriente?
La Cina per il momento osserva silenziosamente in disparte. A Pechino però sono preoccuparti da un eventuale aumento smisurato del petrolio che andrebbe ad incidere sui costi dei loro prodotti, oltretutto per il momento il bacino nordafricano rappresenta un’area, diciamo così, di influenza atlantica e la Cina pur interessandosene vuole evitare di entrare in rotta di collisione con Washington.
In Egitto Mubarak se n’è andato. I militari hanno confermato che rispetteranno i trattati internazionali, allora in pratica, la rivolta non ha cambiato nulla?
Non vorrei apparire troppo catastrofista ma l’Egitto mi ricorda il Cile di Pinochet: potere ai militari, scioglimento del Parlamento e asservimento dei diktat atlantici. I militari hanno promesso che la transizione durerà sei mesi, lo spero anche se ho paura che alla fine si arrivi ad una soluzione gattopardesca: cambiare tutto affinché nulla cambi. Probabile che tutta la corte che circondava Mubarak nel frattempo si riorganizzi e torni in sella, magari nascondendosi dietro un volto più presentabile e poco compromesso con il passato, sempre che i militari non si facciano corrompere dal potere e decidano i tenerlo nelle proprie mani.
E’ stato il trentaduesimo anniversario della rivoluzione islamica iraniana. Secondo lei, questa ricorrenza, ha potuto incidere sulle vicende del vicino Medio Oriente?
Sinceramente non credo, gli Usa sono ormai molti anni che cerca di destabilizzare, con scarsi risultati, l’Iran ed ora hanno cambiato strategia cercando di isolare quel Ahmadinejad che viene regolarmente eletto dalla maggioranza degli iraniani ma che l’occidente considera un dittatore in quanto antepone gli interessi del suo paese a quello delle grandi lobby internazionali.
La rivolta del pane nei paesi arabi, la lotta per il lavoro in occidente e la crisi mondiale possano decretare la fine di un certo turbo capitalismo?
Il capitalismo è in crisi anche se purtroppo, temo avrà vita ancora lunga. Tutte le rivoluzioni cui abbiamo assistito negli ultimi anni, da quelle colorate nell’est europeo a quelle nel nord africa, avevano dietro le quinte i sponsor occulti del capitalismo, Soros in primis. La strada del cambiamento a mio parere viene da Paesi come il Venezuela o l’Iran che stanno rilanciando l’economia sociale e non a caso sono additati al mondo come paesi non democratici. Purtroppo il turbo capitalismo, nonostante l’attuale crisi economica, sociale e politica, credo durerà ancora molti anni anche perché l’occidente è quotidianamente bombardato dal diktat capitalistico “cresci, consuma, crepa” con le menti, specie quelle più giovani che dovrebbero portare avanti le istanze di cambiamento narcotizzate da questo bombardamento.
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