mercoledì 23 febbraio 2011

La nuova arma americana...La piazza.


È in atto una rivoluzione degli assetti internazionali e del modo di concepire la guerra senza precedenti. Le rivolte arabe sono destinate ad entrare nella storia non solo per le ripercussioni sociali nei territori da dove sono partite le marce infuocate, ma anche per una mescolanza ambigua di interessi che deve far riflettere.

Il popolo si riversa nelle piazze, scontri, repressione, bombardamenti, centinaia di morti. Sangue che chiama sangue. La protesta è guardata con attenzione dal mondo occidentale che ne percepisce un principio primo: la libertà. In molti parlano di “cacciata dei tiranni”. Persone consapevoli del proprio potenziale rivoluzionario che si riversano contro colonnelli e dittatori, rei di aver calpestato diritti, di aver perseguito interessi da clan presidenziale. Ma quanto di tutto ciò è vero?. La ribellione è la sola scultrice di questa realtà politica?. È difficile, se non impossibile, difendere molti dei regimi che in questi ultimi giorni si stanno sgretolando sotto i colpi delle prese di coscienza del mondo arabo, ma la rapida diffusione dell’urlo di liberazione, come un’onda incontrastata, giunta fino alle porte di Teheran, crea molte perplessità.

La verità è che stiamo assistendo ad un nuovo modo di fare guerra o per usare un aforisma moderno di “esportare la democrazia”. Troppo dispendioso e poco consono ad un premio nobel per la pace mobilitare caccia bombardieri o cingolati, incauto direi, tenendo conto il pantano di sangue irakeno e afgano. Obama sta portando avanti la stessa identica guerra di George Bush solo che in maniera più intelligente, manovrata dall’interno, al passo con i tempi che suggeriscono il surriscaldamento degli animi, il far germogliare il dissenso, il fomentare ragioni fondate che, in un secondo momento, dovranno aprire scenari raggianti per le stelle e strisce. I modi, i linguaggi sono cambiati: non vedremo più un 2001 o un 2003, guerra in Afghanistan e in Irak, non ci saranno campagne volte a legittimare una risoluzione bellica. Si parlerà di condanna del genocidio, di solidarietà verso gli insorti e, in seguito, di transizione democratica, di tutela del cambiamento, di controllo. Non c’è più “democratica antropofilia” di quella che scredita i propri alleati (ormai ex) in nome delle “ragioni del popolo”. Gli Stati Uniti questo lo sanno bene, infatti ad oggi, sono applauditi per la loro presa di posizione netta contro le repressioni dei governi sotto accusa.

L’immagine Usa è salvaguardata, mai, in questi ultimi anni, così pura. Ma sotto banco si sta già preparando il secondo atto: la ristrutturazione di entourage filo Usa e lo sgambetto all’Iran. Lo “zio Tom” punta il dito su Mubarak, Ben Alì e adesso Gheddafi, assicurandosi un posto in prima fila per il “dopo”. Più volte sulle pagine di Rinascita si è parlato di una possibile “colorazione” delle rivoluzioni. Ciò, sta accadendo. La rapida diffusione del seme della rivolta ne è la più limpida dimostrazione. In molti potrebbero storcere il naso, forse perchè non ricordano i precedenti storici, regalatici da Washington: gli studenti di Belgrado anti-Milosevic, la rivolta arancione di Kiev, quella verde di Teheran, le instabilità della Georgia e del Libano. Sale prove per un progetto ben più ampio. La piazza diventa così la nuova arma americana, una bomba efficace che non fa morti, ma discepoli. Uno strumento che garantisce risultati molto più concreti rispetto ad un fragoroso dispiegamento di eserciti.

Marocco, Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen, Gibuti e poi, perchè no, Iran e Siria, gli obiettivi finali. Bisogna augurarsi che il mondo arabo, svegliatosi dal torpore, non finisca come l’Europa, sempre più satellite Usa, che apra gli occhi e non si assoggetti a nuovi “colonnelli democratici” perchè se così fosse si aprirebbero scenari mondiali ancora più schiavisti e non legati alle autodeterminazioni dei Paesi. La storia farà il suo corso, anche se qualche cosa di veramente rivoluzionario, oltre alle rivolte, è già stato messo in atto: un nuovo tipo di guerra che non può essere percepita da chi legge i giornali o guarda la tv. Un conflitto invisibile, mai così dilagante, che sfrutta il disagio di popoli che rischiano, consapevoli o no, di diventare i nuovi soldati di Washington.



Di Claudio Cabona, www.rinascita.eu


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