lunedì 30 agosto 2010

Le mani delle multinazionali sull'acqua che diventa privata.



Evidente l’interesse del sistema bancario e della finanza al grande business della “privatizzazione “ dell’acqua.



Il Centro Studi di Intesa San Paolo ipotizza che il regolamento attuativo della legge Ronchi sulla “privatizzazione” dell’acqua potrebbe essere emanato nel 2012. Evidente l’interesse del sistema bancario e della finanza  al grande business della “privatizzazione “ dell’acqua. I pacchetti azionari delle prime cinque multi utilities valgono almeno 2 miliardi di euro. Continua la grande mistificazione sui benefici che apporterà ai cittadini la mitica concorrenza in termini di diminuzione delle tariffe, aumento degli investimenti e miglioramento dei servizi.
 
L’acqua è un bene comune e l’accesso all’acqua un diritto umano. Il  Nobel dell’Economia Samuelson definisce i beni pubblici in rapporto alla “non rivalità” (l’uso da parte di un individuo non incide sulla quantità disponibile per gli altri) e “non escludibilità” (impossibile escludere gli altri dall’uso). I sostenitori della privatizzazione escludono l’acqua dalla categoria dei beni pubblici perché è un bene scarso, quindi classificabile come bene economico e soggetto alle logiche del mercato. Acqua scarsa?
 
Lo stress idrico nasce da prelievi superiori alla capacità di rigenerazione. Prelievi aumentati a causa del cambiamento nell’alimentazione, all’aumento dell’urbanizzazione che comporta la cementificazione crescente del territorio, da un’agricoltura che in Occidente ne assorbe il 30%, l’industria il 59% e le famiglie l’11%. Il servizio idrico integrato (captazione, potabilizzazione, erogazione, depurazione, fognatura) è un monopolio naturale (non si possono costruire condotte parallele e/o separare approvvigionamento, depurazione etc) e quindi non assoggettabile al regime della concorrenza nel mercato.
 
Le gare di appalto per la concessione del servizio trasferirebbe il monopolio naturale nelle mani del privato il quale per massimizzare l’utile comprime i costi, incentiva i consumi, aumenta i prezzi. L’esperienza della “privatizzazione” è a dir poco inquietante. Il potere delle multinazionali dell’acqua è rilevante: Veolia presente in 60 Paesi, Lyonnaise des Eaux presente in 120. Nel grande business entrano anche le banche: esempio ne è la privatizzazione della società di servizi idrici Thames Water alla Kemble Water controllata dal Macuqerie Group, una multinazionale dei servizi bancari e gestore dei fondi d’investimento.
 
Anche in Italia è nato il polo industriale dell’acqua dall’alleanza tra Iren (aggregazione fra le ex municipalizzate di Genova, Torino, Parma, Piacenza, Reggio Emilia) e il fondo d’investimento F2 (Cassa Depositi e Prestiti, Fondazioni Bancarie e Grandi Banche). Le esperienze italiane di privatizzazione sono nefaste ma anche la gestione pubblica è stata, in alcuni casi, totalmente fallimentare. Gli aumenti potrebbero essere tollerati in presenza di diminuzione di perdite, qualità dell’acqua, bollette trasparenti! Invece a 15 anni dalla riforma gli investimenti effettuati (che giustificherebbero gli aumenti) sono meno della metà di quelli programmati.
 
Valore medio che spazia tra in vestimenti al 100% di Liguria e Friuli al negletto 6% della Sicilia e della Puglia. Eppure le tariffe pugliesi sono le seconde più alte d’Italia e le perdite della rete idrica ammontano al 56% del totale. Il cittadino di Agrigento invece ha il consumo più basso d’Italia e la tariffa più alta (445 euro a famiglia contro una media nazionale pari a 253). 

Di
Erasmo Venosi, www.terranews.it


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