martedì 28 luglio 2009

I Talebani capiscono l'inglese.

La Folgore in prima linea; in quale guerra nella guerra?



             In Afghanistan ancora fuoco sulla Folgore. La “missione di pace “ laggiù ha, ovviamente, una motivazione ufficiale ma fasulla e altre reali ma inconfessate.



 



I motivi del conflitto



 



Per le principali potenze presidiare la regione ha un ruolo strategico, sia per la posizione che riveste sullo scacchiere che per la presenza nel suo territorio dei giacimenti di gas (che si trovano in enorme quantità anche nell'adiacente Turkmenistan non lontano da Farah ove è di stanza la Folgore). Ma soprattutto il Paese è appetibile per il papavero da oppio da cui si ricava l'eroina. L'opinione pubblica lo ignora ma qualunque osservatore appena appena documentato sa che l'economia mondiale si fonda in gran parte sul narco-business, inteso come speculazioni finanziarie ed investimenti e non al semplice stadio di traffico sui marciapiedi. Da oltre trent'anni il narcodollaro è asse portante del sistema globale, inferiore come volume, forse, solo al petrolio e da decenni le diverse potenze si contendono il controllo delle rotte e impongono sacche di transito dei capitali. In quest'ottica va inquadrata e valutata la priorità della questione afgana.



Come in ogni conflitto che si rispetti, diverse sono le guerre che si combattono in contemporanea. Una di queste vede contrapposti gli alleati di uno schieramento ai combattenti dell'altro; una seconda, intestina e non ufficializzata, è quella che impegna i grandi gruppi di speculazione, di potere, di sfruttamento ed è, sempre, trasversale e fondata sul doppiogiochismo; un'ultima è quella che ogni singolo alleato combatte contro gli altri.



Sono diverse guerre parallele che hanno vita sotto l'ombrello della “missione di pace”.



 



Guerre parallele



 



Proviamo a ricapitolare le diverse ragioni del conflitto afgano.



La prima, che accomuna tutti i centri di potere finanziario mondiale, è la produzione dell'oppio. Affinché questa non scemi e, pur non calando, non faccia diminuire i costi, è essenziale che la zona sia destabilizzata. E' una costante strategica della politica delle multinazionali. Nel primo quaderno di Polaris “La geopolitica della droga e del petrolio” lo abbiamo spiegato in modo articolato.



Ci sono poi le motivazioni geostrategiche. Queste contrappongono, almeno a prima vista, le mire anglo-israelo-americane alle russe. I cinesi, dal canto loro, hanno piani compatibili con gli uni e con gli altri e allo stesso tempo completamente diversi dai loro.



Il mosaico di partite a scacchi che ne consegue dà adito ad altre sfide parallele con tanto di regolamenti di conti. Inglesi, israeliani e americani hanno, infatti, politiche in buona parte competitive tra loro e si contendono zone d'influenza e porzioni di potenza. Con l'andare del tempo proprio gli inglesi, cioè quelli che da un secolo e mezzo esercitano la loro influenza sulla regione, stanno perdendo terreno; sia nei confronti degli israeliani che in quelli degli americani e, in ultimo, anche dell'Iran; questo mentre altrove riculano anche nei riguardi di Germania e Francia.



Gli inglesi arretrano ma sono tenaci e s'incattiviscono.



 



Italiani allo scoperto



 



Ultimamente i nostri soldati sono sempre più sulla linea del fuoco. Possiamo sempre accogliere la tesi ufficiale che addebita questo nuovo scenario all'escalation determinata dalle imminenti elezioni afgane e quindi considerarlo un evento contingente.



C'è però un'altra chiave di lettura possibile, ed è quella che, improvvisamente, anche il nostro contingente sia considerato strategico. Non tanto per il suo ruolo specifico quanto perché l'Italia è tornata in guerra. Non in quella propagandistica “tra Occidente e Islam” e neppure in quella mafiosa per il dominio dell'Afghanistan, in cui continuiamo a essere comparse. Ma in guerra contro l'Inghilterra, o meglio da parte dell'Inghilterra, perché la ripresa della politica mediterranea sulla falsariga craxiana ha eccitato il nemico storico sul Mare Nostrum; in guerra contro gli Usa e Israele, o meglio da parte di Usa e Israele, perché il partito dell'Eni ha scelto di gradire il campo della Russia più del gasdotto afghano-iranico-turco che Tel Aviv e Washington vorrebbero imporre e sul quale è tornato a porre l'accento Biden nella sua visita guerrafondaia in Georgia.



Ci hanno allora dichiarato guerra? In modo non convenzionale, non totale, magari aritmico; forse più corretto sarebbe dire che ci troviamo in uno stato di insidiosa ostilità prolungata che con intensità e interesse diversi viene animato dalle tre capitali del “partito atlantico”.



Ed ecco che, per la prima volta da quando nel 2001 iniziò la spedizione per l'oppio, i nostri soldati si ritrovano seriamente invischiati in una guerra obliqua di tutti contro tutti.



 



I talebani parlano l'inglese



 



Definire con certezza la paternità di mine, bombe e autobombe è impossibile, ragion per cui non si può mai dare per scontata la matrice esatta di molti degli attentati contro i militari; se vogliamo però escludere l'intervento diretto di intelligence “alleate” possiamo restare in una lettura lineare, quantomeno in apparenza; una lettura che non ne esclude però una seconda più sensata e più complessa.



Non siamo in grado di definire la portata delle infiltrazioni e delle influenze che questi o quei clan d'Afghanistan possono subire e accettare; sappiamo però dagli innumerevoli precedenti che hanno sempre saputo neutralizzarle o giocarle a proprio favore. Non vogliamo quindi assolutamente affermare che i combattenti afgani siano manovrati a bacchetta; sosteniamo invece che sanno leggere le situazioni e che sono in grado di cogliere l'attimo propizio, magari concentrandosi su chi è oggetto di attenzioni distruttive da parte di alleati potenti. Certe sollecitazioni non possono non capirle al volo e se le ritengono di loro interesse non si vede perché mai non dovrebbero rispondervi fulmineamente: d'altronde una delle prime qualità di chi combatte una guerra di guerriglia è quella di concentrarsi sugli obiettivi nel momento in cui sono più vulnerabili o meno difesi.



Ultimamente la Cia per spiegare gli scarsi successi nella zona ha confessato di aver trovato pochissimi agenti in grado di parlare pashtun. Ma i talebani l'inglese lo parlano benissimo, e si vede.



Vediamo d'inziare a capirlo anche noi e possibilmente d'impartire a nostra volta qualche lezione a chi a El Alamein era dall'altra parte e non lo ha mai dimenticato.



Di Gabriele Adinolfi, da Noreporter

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