NEW YORK — Aveva scalato in free solo le pareti più vertiginose del pianeta. Ma l’ironia della sorte ha voluto che il 52enne John Bachar morisse sulla falesia dietro casa, in California. Il leggendario climber americano è stato trovato morto qualche giorno fa ai piedi del Dike Wall, vicino al Mammoth Lakes dove viveva, dopo un tragico volo di 31 metri durante una delle sue scalate solitarie senza corda. La notizia ha avuto un enorme risalto sui media di tutto il mondo. Tra gli addetti ai lavori, che lo consideravano il più forte arrampicatore Usa dai tempi di Royal Robbins, negli anni 50, è un vero e proprio choc che, dai blog ai forum online, ha subito fatto scoppiare un rovente dibattito tra i sostenitori dell’arrampicata libera (o free climbing) e quelli della scalata artificiale. Mentre la seconda contempla l’utilizzo di aiuti «artificiali», nella prima l’arrampicatore affronta l’ascensione con il solo utilizzo di mani nude e piedi, ma anche appoggiando e incastrando il corpo intero o sue parti. Anche se, per limitare i danni in caso di caduta, la libera non esclude a priori l’utilizzo di attrezzatura, (come corde e moschettoni) Bachar non ne faceva mai uso, essendo il fiero pioniere del free solo: sport estremo e senza «paracaduti », compiuto a rischio della propria vita.
Il fatto che «il più bravo di tutti » sia morto proprio su una roccia che aveva già scalato centinaia di volte, dimostrerebbe secondo alcuni il rischio della sua disciplina. «Chi pratica free solo sa esattamente a quali rischi va incontro. E li accetta», teorizza mazzysan sul sito web quotazero. com. «Il free solo è come il gioco dei dadi — gli fa eco Curt dal forum di rockclimbing.com —. Il risultato è sempre un’incognita ». Ma se qualcuno adesso vorrebbe addirittura metterlo al bando, per la maggior parte degli appassionati di questo sport Bachar resta un’icona dell’etica alpinistica per il suo approccio purista ed ecologico che l’aveva portato a condannare chi chioda le vie scendendo in doppia. «Non credeva nell’uso di chiodi o spit — racconta il climber australiano John Middendorf —. Aveva un approccio Zen e si rifiutava di usare qualsiasi strumento che lasciasse un segno permanente sulla roccia». Con l’avvento del cosiddetto «stile francese» (coi suoi super gadget), a partire dagli anni 80 Bachar era caduto in disgrazia. Per essere riscoperto un decennio più tardi, con l’avvento di una nuova generazione di scalatori «puri» che rifiutavano l’utilizzo di accessori, giudicandoli «disonesti». Behar era il loro mito, per il suo rigore nell’allenamento e nell’alimentazione che l’aveva portato ad inventare l’omonima «scala Bachar»: appesa al soffitto, inclinata di circa 20 gradi, si percorre attaccandosi ai pioli con le mani e oggi è usata dai climber per allenare i muscoli delle braccia e della parte superiore del corpo.
Nel 2006, quando rimase gravemente ferito in seguito ad un incidente d’auto, la comunità degli scalatori Usa, molti giovanissimi, organizzò una colletta per pagargli le spese sanitarie che lui non poteva permettersi, non avendo l’assicurazione medica. Figlio di un docente di matematica all’università californiana Ucla, Bachar aveva abbandonato gli studi per dedicarsi a tempo pieno alla roccia. Era arrivato nella Yosemite Valley all’inizio degli anni 70, soltanto con un paio di scarponi, un sassofono e un fisico da adone greco (si era allenato col coach di Carl Lewis) unendosi ad un gruppo di giovani scalatori noti col nome di Stonemasters, maestri della roccia. «Nessuno ha mai meritato quel nome più di lui», ha scritto il fondatore del movimento John Long in una biografia dedicata al gruppo. Nel 1981 aveva addirittura offerto una ricompensa di diecimila dollari a chi fosse riuscito a seguirlo nelle sue scalate per un’intera giornata. Ma nessuno osò mai raccogliere quella sfida. La sua leggenda è scritta sulle cartine topografiche del Yosemite Park dove oggi numerosi sentieri portano il suo nome.
Alessandra Farkas
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