Per li occhi fora scoppiava lor duolo;/ di qua, di là soccorrien con le mani/ quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:/ non altrimenti fan di state i cani/ or col ceffo or col piè, quando son morsi/ o da pulci o da mosche o da tafani. Con questi versi di terrificante realismo e forte impatto emotivo Dante descrive la condizione degli usurai nel III girone del VII cerchio dell’Inferno. Sfruttatori del lavoro altrui, avidi di denaro e di potere, se ne stanno - moltitudine indistinta e belluina - muti, racchiusi nel loro dolore espresso attraverso le lacrime che sgorgano dagli occhi. Come i cani d’estate dimenano il muso e le zampe quando sono tormentati dalle pulci, dalle mosche e dai tafani, così anch’essi agitano convulsamente le mani per pararsi dalle fiamme e dalla sabbia ardente. Un’impietosa condanna dell’usura, dunque (la legislazione ecclesiastica del tempo paragonava l’usura all’eresia e condannava al rogo chi si macchiava di tale colpa), oggi più che mai d’attualità in un mondo globalizzato che vede il trionfo della finanza apolide usuraria e del grande capitale a scapito del lavoro dei popoli e della solidarietà sociale. Già Aristotele affermava che “il denaro non può procurare altro denaro” e tale enunciato lo troviamo poi sviluppato nel tomismo di età medievale. Il denaro veniva infatti considerato sterile in quanto non poteva generare frutti alla stregua degli esseri viventi o delle piante. Ma cos’è esattamente l’usura? È il denaro ricavato dal mero utilizzo del denaro. Ed Ezra Pound, da annoverare tra i grandi uomini del ‘900, bollava impietosamente taluni governi di servilismo e di sottomissione al signoraggio sulla moneta esercitato dal sistema bancario privato e dalle banche centrali da questo controllate. Una ragnatela speculativa dove l’esclusivo interesse privato strangola la sovranità politica e monetaria degli stati nazionali e l’autodeterminazione dei popoli.
Tale sistema perverso nasce in Inghilterra ad opera dello scozzese William Paterson, mercante, avventuriero e banchiere. Il 27 luglio 1694 Paterson ottiene dal sovrano protestante Guglielmo III d’Orange (al potere dal 1689 come re d’Inghilterra, Irlanda e Scozia dopo la deposizione di suo zio Giacomo II, cattolico. Ancora oggi l’oppressione “orangista”, incentivata e protetta da Londra, contro i cattolici repubblicani d’Irlanda è oggetto di funesta cronaca quotidiana) l’autorizzazione ad operare come banchiere ufficiale del regno. Fonderà la Banca d’Inghilterra, prima banca di emissione privata, che godrà così del privilegio di emettere moneta da prestare ad usura allo Stato (il primo prestito al governo inglese ammonterà a 1.200.000 sterline). Nella sua memorabile sentenza: “La banca trae beneficio dall’interesse che pretende su tutta la moneta che crea dal nulla” vi è racchiuso il nucleo ideologico del significato di signoraggio sulla moneta. È, quindi, a partire da tale data che i governi perderanno la loro sovranità economica e il potere di emettere moneta sarà delegato ad una banca privata. Non faranno ovviamente eccezione gli Usa, che nonostante l’indipendenza dalla madrepatria proclamata con la famosa dichiarazione del 4 luglio 1776, saranno sempre soggetti all’usurocrazia monetaria della Federal Reserve, divenendo ben presto il braccio armato del liberismo mondialista. Con due eccezioni, però, anche se di breve durata per la tragica sorte toccata a chi osò andare controcorrente: Abraham Lincoln e John Fitzgerald Kennedy. Tuttavia, ad onor del vero, già Thomas Jefferson, al tempo in cui ricopriva la carica di segretario di Stato durante la presidenza di George Washington, si era fermamente opposto al progetto di fondazione di una banca centrale privata (la First Bank of the United States) caldeggiato dall’allora ministro del Tesoro Alexander Hamilton. Personaggio ambiguo e contraddittorio (in origine sosteneva esattamente l’opposto, e cioè che la cosa pubblica non potesse essere delegata ad una banca privata poiché questa tutelava esclusivamente i propri interessi), l’Hamilton fu accusato di essere strumento dei banchieri internazionali, probabilmente in combutta con i Rothschild, che proprio in quel periodo, per bocca del fondatore della dinastia, l’ebreo askenazita Mayer Amschel, memore forse della succitata celebre frase del suo predecessore scozzese, aveva sentenziato: “Lasciate che io emetta e controlli il denaro di una nazione e non mi interesserò di chi ne formula le leggi”. Come siano andate poi le cose per il XVI e XXXV presidente Usa è cosa tristemente risaputa. Lincoln sosteneva che il privilegio dell’emissione della moneta dovesse essere prerogativa esclusiva del governo e che il denaro da padrone sarebbe dovuto diventare servitore dell’umanità. L’applicazione pratica di tali principi portò all’emissione di banconote non gravate dagli interessi da corrispondere ai banchieri privati. Il 15 aprile 1865 Lincoln veniva assassinato in un palco del teatro di Washington. Stessa sorte, cento anni dopo, toccava a Kennedy, il quale, cinque mesi prima del suo assassinio, aveva firmato l’ordine esecutivo n. 11110 con il quale il governo aveva il potere di battere moneta dietro copertura argentea. Anche in questo caso lo Stato non pagava più gli interessi alla banca di emissione privata. Un duro colpo al signoraggio bancario che si infranse il 22 novembre 1963. Da allora nessun altro presidente Usa si è più arrischiato a sfidare i Signori del denaro.
Un salto all’indietro, necessario per comprendere anche taluni oscuri risvolti dell’immane II conflitto mondiale, troppo spesso sottaciuti dalla cosiddetta storiografia ufficiale, ci porta ai cosiddetti accordi di Bretton Woods del luglio 1944, sottoscritti dai rappresentanti delle Nazioni scese in campo contro le potenze dell’Asse (per inciso Italia e Germania, “stati canaglia” ante litteram se si dovesse prestar fede all’attuale way of thinking mondialista, avevano ricondotto sotto l’egida pubblica l’emissione della moneta). Per volontà statunitense fu imposto il dollaro come valuta ufficiale per i pagamenti internazionali e moneta di riserva delle Banche centrali, modificando radicalmente il piano originario che prevedeva l’istituzione di una propria unità monetaria, il bancor, che avrebbe soppiantato nel tempo l’oro come strumento finanziario internazionale. Nacquero anche la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, organismi economico-finanziari oggi più che mai tristemente alla ribalta per i loro diktat insindacabili di draconiane politiche liberiste lacrime e sangue che ogni singola Nazione è tenuta ad applicare al suo interno (emblematici sono i casi della Grecia e dell’Irlanda, mentre attualmente è finita nel mirino degli usurai internazionali anche l’Ungheria, rea di non aver provveduto a falcidiare lo stato sociale secondo i desiderata dei poteri forti).
I Signori del denaro e della finanza apolide, fedeli all’insegnamento di Nathan Rothschild: “Compra quando il sangue scorre per le strade, e vendi al suono delle trombe”, hanno poi perfezionato i loro meccanismi di assoggettamento della res publica (politica, economica, sociale) agli interessi esclusivi di un pugno di uomini votati al governo del mondo.
Così gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944 hanno segnato l’incipit di un rinnovato e attualizzato sistema di controllo da parte delle trionfanti forze della finanza mondialista sull’economia reale delle singole nazioni attraverso l’imposizione del dollaro come moneta internazionale e come riserva valutaria di tutte le banche centrali.
A tali istituti privati (attenzione, non istituzioni pubbliche come talvolta si tende furbescamente e servilmente a qualificarli), tutti al servizio delle principali banche d’affari internazionali (non fa ovviamente eccezione la nostra Banca d’Italia, banca privata a tutti gli effetti in quanto proprietà delle maggiori banche nazionali e straniere sue azioniste), fa capo il signoraggio sulla moneta, vale a dire il diritto di battere moneta per conto dello Stato, al quale sarà poi prestata dietro pagamento di un interesse. Da tale “cilindro magico” scaturisce il cosiddetto debito pubblico; in altre parole il conquibus che ogni cittadino-lavoratore-suddito deve pagare alla banca centrale del proprio paese per utilizzare la moneta coniata dai banchieri privati (assieme all’altro artificioso parametro conosciuto come PIL si riesce in tal modo ad influenzare e ingabbiare l’intera economia mondiale).
Orbene, dopo le summenzionate “intese” stipulate nella cittadina nordamericana del New Hampshire, nuova tappa cruciale per l’assoluto e incontrastato dominio della finanza apolide sulle economie nazionali sarà la fine del conio tradizionale della moneta e l’inizio del monetarismo virtuale. Il 15 agosto 1971, infatti, Richard Nixon, XXXVII presidente degli Stati Uniti d’America, non potendo più sostenere il peso della convertibilità dollaro-oro sancita a Bretton Woods abolisce tale meccanismo. Una mossa probabilmente dettata dalla richiesta della Francia (governo De Gaulle 1958-1969) agli Usa di convertire senza indugio in oro le montagne di dollari accumulate nei propri forzieri e dal ritiro dei propri depositi in dollari dalle stesse banche nordamericane. In concreto una scelta coraggiosa per riappropriarsi della propria sovranità politica, economica, culturale e militare (uscita della Francia dalla Nato, fine della guerra coloniale in Algeria e relazioni fattive con i paesi dell’est) che sarebbe costata molto cara all’indomito combattente di Lille. L’obiettivo degli “yankee” era ora impedire ad ogni costo che le altre Nazioni-colonia europee ed extra europee seguissero l’esempio francese.
Se ciò fosse accaduto avremmo assistito al crac dell’intero sistema bancario statunitense. Così, fedele al motto “muoia Sansone con tutti i Filistei” o, se preferite, al perverso adagio del “tanto peggio tanto meglio”, la manovra statunitense dell’abolizione della convertibilità oro-dollaro innescò una perniciosa depressione economica a livello mondiale, che ebbe il suo culmine nel biennio 1973-1975 e che richiamò alla mente la grande crisi degli anni trenta, che gli Usa cercarono di superare attraverso il massiccio ricorso all’industria bellica.
Grazie alla trappola di Pearl Harbour tesa ai giapponesi, il presidente Roosevelt riuscì ad ingannare lo stesso popolo americano e a fargli digerire, con “democratica” impudenza, l’entrata Usa nell’immane conflitto, che, a parole, aveva ipocritamente aborrito nel suo programma elettorale (“non una goccia di sangue di giovani americani sarebbe stata versata nel conflitto in corso in Europa e nel mondo”).
Vano fu anche il tentativo di Ezra Pound, dall’aprile al luglio del 1939, di dissuadere Roosevelt dal gettare l’America nella guerra mondiale.
La caduta del muro di Berlino e l’implosione dell’impero sovietico, al di là della retorica fuorviante e dei falsi propositi di libertà e di giustizia sociale per i popoli d’Europa, hanno al contrario determinato il trionfo indiscusso della cupola plutocratica liberista, che sta ora portando a termine il suo disegno di dominio incontrastato sull’economia mondiale, grazie anche alla totale genuflessione e sottomissione della classe politica (di centro, di destra e di sinistra) agli interessi delle forze dominanti. Si è così profeticamente avverata l’arguta sentenza dello stesso Pound: “I politici sono camerieri dei banchieri”.
In nome del Dio Mercato e del profitto estremo si stanno smantellando tutte le conquiste sociali del secolo passato: dal posto di lavoro stabile e duraturo al diritto di sciopero, dalla salvaguardia del potere d’acquisto per stipendi e pensioni allo stravolgimento del sistema previdenziale e sanitario; dall’attacco sistematico e concentrico alla contrattazione nazionale (Fiat docet!) all’imposizione di contratti individuali; dalla “riforma” delle retribuzioni, sempre più relegate nella spirale perversa della produttività senza limiti alla contrazione dei diritti personali e sindacali; dalla criminale restrizione del credito (vedi Basilea 2) alle piccole e medie imprese, all’artigianato e al commercio, con conseguente aumento della disoccupazione, al sempre più massiccio ricorso al lavoro sottopagato o in nero. Le banche non sono certamente estranee a tale logica. Da alcuni anni lo stanno pesantemente sperimentando sulla propria pelle i lavoratori del credito: scorpori, cessioni di rami d’azienda, accorpamenti, fusioni, delocalizzazioni e banconi vari sono oggi il pane quotidiano che i grandi gruppi bancari, divenuti vere e proprie multinazionali, distribuiscono ai propri dipendenti e alla collettività tutta.
È forse lo stesso mercato, come ha denunciato a ragione Claudio Tedeschi dalle colonne de Il Borghese dello scorso giugno, “(…) controllato e gestito dalla finanza internazionale e dai grandi gruppi bancari che hanno portato le borse al tracollo? Lo stesso mercato che è servito alle grandi banche d’investimento (Goldmann Sachs, una per tutte) per mentire, speculare, raccogliere denaro buono e vendere titoli “taroccati” ed i cui dirigenti percepivano stipendi annuali nell’ordine di milioni di dollari, mentre i cittadini truffati perdevano il lavoro e la casa, travolti dallo scandalo dei mutui sub prime? No non intendiamo morire in nome del libero mercato”.
Sì, ribadiamo noi, si tratta della stessa logica del “Libero Mercato über alles” che, soprattutto a partire dall’ultimo quinquennio, sta inesorabilmente trascinando nel baratro anche il mondo del lavoro e della produzione italiani. E se da un lato concordiamo pienamente con la soluzione prospettata dall’articolista riguardo alla nazionalizzazione della BCE e alla creazione di una Banca centrale europea che sia emanazione dei singoli governi per abbattere finalmente il signoraggio sulla moneta, facendo così crollare non solo il costo del denaro ma anche i deficit dei singoli Stati membri, dall’altro noi prospettiamo un ulteriore affondo attraverso la socializzazione delle principali risorse strategiche e produttive delle Nazioni. Solo in questo modo si potrà ristabilire nel Lavoro (colla elle maiuscola) il valore fondante dell’uomo, sulla scia dell’esperienza, breve ma pregnante, della parentesi socializzatrice che l’Italia della RSI sperimentò negli ultimi mesi della guerra: la socializzazione della Fiat (alla faccia dell’odierno “manager” in pullover!), dell’Ansaldo, della Dalmine, della siderurgia, dei tabacchifici e di tutte le maggiori aziende italiane. Un esempio coraggioso di alta socialità che volle riconoscere nel lavoro e nei lavoratori il nucleo fondante dello Stato e della collettività.
È tempo che i popoli prendano finalmente coscienza che non si può morire né per Maastricht né per le mene dei banksters. Due secoli fa Honoré de Balzac, nel suo famoso romanzo Grandeur et décadence de César Birotteau del 1837, affermava: “Non è scandaloso che alcuni banchieri siano finiti in prigione; scandaloso è che tutti gli altri siano in libertà”.
Di Pino Biamonte, www.rinascita.eu