“Lo stato sociale è una grande conquista civile della seconda metà del XX secolo, anche se le sue radici han cominciato a svilupparsi nell’ Ottocento. (…) Le persone non muoiono opportunamente poco dopo essere andate in pensione, come accadeva quando Bismarck – altro antenato di destra dello stato sociale - introdusse uno dei primi sistemi previdenziali obbligatori. Vivono in media circa vent’anni dopo il collocamento a riposo, e le case degli enti pensionistici ne soffrono. Anche se non soffrono nella misura che i neo-conservatori sono usi denunciare, al fine di forzare riforme delle pensioni di fatto scarsamente attinenti ai problemi reali del sistema previdenziale, come stà avvenendo in questi anni in Italia”. Così Luciano Gallino, sociologo emerito all’Università di Torino in un pamphlet pubblicato da Laterza nel 2006.
Sembra di capire che l’imbarazzo verso lo stato sociale nasca dai fattori materiali in cui sono contemplabili i costi di produzione e riproduzione dell’ essere umano al livello di ‘civiltà’ che, volenti o nolenti, abbiamo raggiunto.
Secondo Gallino “far studiare i figli per venti anni, dalla materna all’ università, costa molto di più che non metterli al lavoro appena finita la scuola dell’obbligo.”
Così, dallo stato sociale si perviene, discendendo lungo perverse logiche di profitto, allo stato flessibile: liquido, forse direbbe Bauman, sciogliendo così l’ultimo grumo di Kultur occidentale nel brodo tellurico della modernità più spinta e deregolata - inafferrabile e “bianca” come le morti sul lavoro.
Flessibilità, precariato, deregulation.
Epperò gli omicidi che restano più neri delle giovani notti di Halloween perugine sono quelli commessi dalle macchine sugli uomini: come quei 1300 operai che ogni anno sono tritati nelle fabbriche di questo Paese, e che in Italia segnano lo scacco dello stato sociale di fronte alle logiche neocons di Confindustria.
Morti sul lavoro come conseguenza di una cultura sociale politica e imprenditoriale allo sfascio da almeno dieci anni, a causa di sciagurate politiche di sindacati, padroni, e politici corrotti.
La carta costituzionale vigente sancisce negli articoli 35 (“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”) e 41 ( dove viene specificato che l’iniziativa privata “ non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”) le condizioni affinchè i lavoratori siano valorizzati quali forza di sviluppo del Paese, non come merce, e sia loro garantita dignità e sicurezza.
Oggi, una ‘cultura’ diffusa presso masse ‘leghistizzate’ e scarsamente sensibili ai valori della Comunità, reagisce alla richiesta di sicurezza sui posti di lavoro come ad una fastidiosa ‘fissazione’ di esagitati ‘rivoluzionari’ e ricorre alla categoria della “fatalità” per tentar di giustificare le stragi e gli infortuni sul lavoro (come se non esistesse un nesso tra la caduta di attenzione sulla qualità del lavoro in un’azienda – ritmi, stress, fatica, orari, nocività - e il tasso infortunistico).
All’inizio degli anni ’90 ha preso forma la nuova organizzazione del lavoro industriale: dietro parole d’ordine quali “produzione just in time” e “core business” si avviava quel processo di produzione in tempo reale le cui conseguenze sarebbero state precariato e insicurezza.
Ancora Luciano Gallino: “Alle carenze formative si aggiungono i costi dei dispositivi attivi e passivi per la prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro che molte imprese cercano di limitare il più possibile (…).D’altra parte tale tendenza è stata accentuata dal decreto attuativo della legge 30 (approvata dal precedente governo Berlusconi, Ndr) che ha facilitato la cessione di rami d’impresa anche nel caso in cui non erano in precedenza funzionalmente autonomi.”
Qualche dato: gli ispettori del lavoro, che dovrebbero sorvegliare sull’applicazione da parte delle aziende delle norme in materia di sicurezza, sono meno di 2300, a fronte dei quali operano circa un milione e mezzo di imprese non individuali.
La recessione globale, la deregolazione dello stato con immissione sfrenata di masse di immigrati nel circuito economico-sociale del Paese, i contratti a tempo determinato e l’insicurezza sul lavoro sono enormi minacce all’equilibrio e alla pace e derivano da un’ideologia liberista che trova nell’individualismo di massa il suo brodo di coltura.
Quel che stà cuore ai governanti non è la sicurezza dei lavoratori quanto quella degli imprenditori, tanto che tra le priorità del ministro del Welfare Sacconi c’era quella di modificare il testo unico emanato dal governo precedente che, pur timidamente, riconosceva l’importanza della sicurezza nel lavoro fino a prevedere un inasprimento delle sanzioni per la violazione delle norme sulla prevenzione.
Come scrivono Gianni Pagliarini e Paolo Repetto in Uno ogni sette ore, perché di lavoro si muore, “Curiosamente il pugno di ferro – che le destre auspicano contro gli autori di piccoli furti nelle periferie degradate - non dovrebbe valere per gli imprenditori inadempienti riguardo alla messa in sicurezza degli impianti o alla mancata prevenzione dei rischi per la salute dei lavoratori”.
Mario Cecere
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