(ASI) Sono passati quarant’anni da quella domenica macchiata di sangue dai soldati britannici che spararono a civili inermi durante la manifestazione organizzata dalla Nothern Ireland Civil Rights Association. Quel 30 gennaio del 1972, nelle strade di Derry, persero la vita quattordici persone repubblicane per mano del primo battaglione del reggimento di paracadutisti di sua maestà. Il battaglione della morte, armato di tutto punto, senza nessun motivo, iniziò ad esplodere colpi su colpi, anche alle spalle di persone che stavano cercando di mettersi in salvo dalla follia inglese.
Una data, quella del 30 gennaio del 1972, che ha costretto molti giovani irlandesi ad imbracciare le armi per difendersi dai soprusi e per conquistare la propria libertà. Nel giugno del 2010, il Rapporto di Lord Saville, ha finalmente reso pubblica la verità. Nelle 5000 pagine del Rapporto, voluto da Tony Blair nel 1998, viene dimostrato che il massacro del Bloody Sunday fu assolutamente ingiustificato e che nessuna delle persone uccise dai soldati era armata. Ogni anno a Derry si svolge una marcia commemorativa che segue la stessa strada percorsa nella manifestazione per i diritti civili del 1972, da Creggan alla Guildhall square, la piazza del municipio. Dall’anno scorso, proprio dopo che il Rapporto Saville stabiliva finalmente la verità, il futuro del corteo del ricordo, è stato teatro di diverse interpretazioni. Tony Doherty, rimasto orfano dopo quella maledetta domenica, aveva dichiarato: “Penso che molte persone siano del parere che la prossima marcia dovrebbe essere l’ultima, e sarebbe adeguato approfittare dell’occasione per la celebrazione di una festa piuttosto che per una commemorazione”. I pareri sul destino della manifestazione, però erano differenti, Liam Wray, che in quella sanguinosa giornata perse suo fratello, aveva detto: “Non credo siano i familiari delle vittime i proprietari della marcia, credo lo sia la gente di Derry. Non credo che la marcia dovrebbe smettere perché i nostri familiari hanno ottenuto giustizia, la marcia è molto più di questo; molte altre organizzazioni hanno partecipato a questa marcia e hanno avuto l’occasione per evidenziare la loro causa. Penso che sarebbe molto triste e dannosa per i diritti civili e i diritti umani, se dovesse scomparire”. Quest’anno, la marcia è stata ripetuta lo scorso sabato e sono stati molti gli appelli affinché tutti partecipassero. In una lettera pubblicata dall’Irish Republican News, scritta da un gruppo di Hooded Men, uomini internati che erano sistematicamente torturati dalle forze armate britanniche, si legge: “Oggi, il governo inglese e la sua mezza direzione a Stormont nega i diritti umani e civili continuando a sostenere l’internamento e inoltre tentando, con mezzi piuttosto disperati, di impedire alla gente di marciare di nuovo in difesa di questi diritti. Il 29 gennaio noi, ex internati di Long Kesh, ci uniremo alla marcia che segnerà il quarantesimo anniversario della Bloody Sunday di Derry. Marceremo sotto una bandiera che invocherà la fine dell’internamento nel 2012, e fra noi ci saranno i sopravvissuti all’hooded treatment, che subirono torture nell’agosto 1971”. In quegli anni, la situazione nella parte dell’Irlanda occupata era tragica, molti giovani irlandesi erano detenuti nelle prigioni con scarse possibilità di essere rinviati a giudizio o di essere rilasciati grazie ad una nuova norma varata dal governo di Londra che permetteva l’arresto preventivo per un tempo non definito a chiunque fosse solo sospettato di essere un militante nazionalista irlandese. La marcia del 30 gennaio 1972 era stata indetta proprio contro le misure repressive. L’internamento e la tortura erano studiati ed attuati dallo stato britannico per terrorizzare la popolazione nordirlandese. Ancora oggi, che siamo nel “modernizzato” 2012, il governo “democratico” di Stormont, permette perquisizioni corporali violente da parte delle guardie carcerarie sui prigionieri politici irlandesi. Ma quella domenica di sangue non fu la prima volta nella quale i soldati di sua maestà aprirono il fuoco contro la popolazione non armata. Nell’agosto del 1971, a Ballymarphy, nella zona ovest di Belfast, durante tre giorni di protesta sempre contro l’internamento senza processo, lo stesso reggimento di paracadutisti che sparò a Derry il 30 gennaio del 1972, aprì il fuoco e uccise dieci persone. Per quest’altro massacro i familiari delle vittime chiedono da molti anni verità e giustizia. John Teggart, che nell’agosto del 1971 ha perso il padre, ha recentemente dichiarato: “Sono passati quarant’anni, e non c’è stata alcuna inchiesta da parte della polizia. Deve esserci, e deve essere indipendente. Devono occuparsene le persone giuste, in accordo con le famiglie. Vogliamo avere un colloquio diretto con David Cameron a questo proposito”. Celebrare ancora oggi il Bloody Sunday significa si ricordare le persone uccise mentre manifestavano contro l’internamento e la difesa dei diritti umani universali, ma anche ricordare tutti i martiri d’Irlanda e lottare contro la brutale repressione che è tutt’ora in atto. Il Rapporto Saville, per quanto doveroso, non può bastare al popolo irlandese che è determinato ad ottenere la libertà. Tiocfaidh àr là.
Una data, quella del 30 gennaio del 1972, che ha costretto molti giovani irlandesi ad imbracciare le armi per difendersi dai soprusi e per conquistare la propria libertà. Nel giugno del 2010, il Rapporto di Lord Saville, ha finalmente reso pubblica la verità. Nelle 5000 pagine del Rapporto, voluto da Tony Blair nel 1998, viene dimostrato che il massacro del Bloody Sunday fu assolutamente ingiustificato e che nessuna delle persone uccise dai soldati era armata. Ogni anno a Derry si svolge una marcia commemorativa che segue la stessa strada percorsa nella manifestazione per i diritti civili del 1972, da Creggan alla Guildhall square, la piazza del municipio. Dall’anno scorso, proprio dopo che il Rapporto Saville stabiliva finalmente la verità, il futuro del corteo del ricordo, è stato teatro di diverse interpretazioni. Tony Doherty, rimasto orfano dopo quella maledetta domenica, aveva dichiarato: “Penso che molte persone siano del parere che la prossima marcia dovrebbe essere l’ultima, e sarebbe adeguato approfittare dell’occasione per la celebrazione di una festa piuttosto che per una commemorazione”. I pareri sul destino della manifestazione, però erano differenti, Liam Wray, che in quella sanguinosa giornata perse suo fratello, aveva detto: “Non credo siano i familiari delle vittime i proprietari della marcia, credo lo sia la gente di Derry. Non credo che la marcia dovrebbe smettere perché i nostri familiari hanno ottenuto giustizia, la marcia è molto più di questo; molte altre organizzazioni hanno partecipato a questa marcia e hanno avuto l’occasione per evidenziare la loro causa. Penso che sarebbe molto triste e dannosa per i diritti civili e i diritti umani, se dovesse scomparire”. Quest’anno, la marcia è stata ripetuta lo scorso sabato e sono stati molti gli appelli affinché tutti partecipassero. In una lettera pubblicata dall’Irish Republican News, scritta da un gruppo di Hooded Men, uomini internati che erano sistematicamente torturati dalle forze armate britanniche, si legge: “Oggi, il governo inglese e la sua mezza direzione a Stormont nega i diritti umani e civili continuando a sostenere l’internamento e inoltre tentando, con mezzi piuttosto disperati, di impedire alla gente di marciare di nuovo in difesa di questi diritti. Il 29 gennaio noi, ex internati di Long Kesh, ci uniremo alla marcia che segnerà il quarantesimo anniversario della Bloody Sunday di Derry. Marceremo sotto una bandiera che invocherà la fine dell’internamento nel 2012, e fra noi ci saranno i sopravvissuti all’hooded treatment, che subirono torture nell’agosto 1971”. In quegli anni, la situazione nella parte dell’Irlanda occupata era tragica, molti giovani irlandesi erano detenuti nelle prigioni con scarse possibilità di essere rinviati a giudizio o di essere rilasciati grazie ad una nuova norma varata dal governo di Londra che permetteva l’arresto preventivo per un tempo non definito a chiunque fosse solo sospettato di essere un militante nazionalista irlandese. La marcia del 30 gennaio 1972 era stata indetta proprio contro le misure repressive. L’internamento e la tortura erano studiati ed attuati dallo stato britannico per terrorizzare la popolazione nordirlandese. Ancora oggi, che siamo nel “modernizzato” 2012, il governo “democratico” di Stormont, permette perquisizioni corporali violente da parte delle guardie carcerarie sui prigionieri politici irlandesi. Ma quella domenica di sangue non fu la prima volta nella quale i soldati di sua maestà aprirono il fuoco contro la popolazione non armata. Nell’agosto del 1971, a Ballymarphy, nella zona ovest di Belfast, durante tre giorni di protesta sempre contro l’internamento senza processo, lo stesso reggimento di paracadutisti che sparò a Derry il 30 gennaio del 1972, aprì il fuoco e uccise dieci persone. Per quest’altro massacro i familiari delle vittime chiedono da molti anni verità e giustizia. John Teggart, che nell’agosto del 1971 ha perso il padre, ha recentemente dichiarato: “Sono passati quarant’anni, e non c’è stata alcuna inchiesta da parte della polizia. Deve esserci, e deve essere indipendente. Devono occuparsene le persone giuste, in accordo con le famiglie. Vogliamo avere un colloquio diretto con David Cameron a questo proposito”. Celebrare ancora oggi il Bloody Sunday significa si ricordare le persone uccise mentre manifestavano contro l’internamento e la difesa dei diritti umani universali, ma anche ricordare tutti i martiri d’Irlanda e lottare contro la brutale repressione che è tutt’ora in atto. Il Rapporto Saville, per quanto doveroso, non può bastare al popolo irlandese che è determinato ad ottenere la libertà. Tiocfaidh àr là.
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