mercoledì 12 agosto 2009

La vita senza una Vetta è vagabondaggio.



«Un albero che a braccia aperte si misura

nasce da un minuscolo arboscello,

una torre di nove piani

comincia con un cumulo di terra,

un viaggio di mille miglia

principia con un solo passo.»



Questa massima (1) tratteggia lo spirito che ha guidato tre uomini di Vetta, sempre più in alto, fino alla sommità del romano Fiscellus Mons (Monte Ombelico, per la posizione centrale nella penisola italica) o Gran Sasso d’Italia, il più elevato massiccio montuoso degli Appennini. Un’esperienza che cercherò di descrivere nella sua essenza trascendente, evitando un semplice resoconto dei fatti.

Cominciamo l’avventura con quello che a prima vista può sembrare un fastidioso intoppo:  arrivati al piazzale dei Prati di Tivo (1.450mt) veniamo informati circa l’inagibilità della seggiovia che ci avrebbe fatto guadagnare un ora di viaggio portandoci direttamente a quota 2.015mt.

Per cui si procede a piedi dalla Piana del Laghetto offrendo sempre meno rilevanza alla dissestata costruzione metallica ed al suo mediocre utilizzo.

L’apparente contrattempo avrà come ricompensa un impareggiabile visione: la bianca e mistica nebbia incontrata dopo il primo pendio ci mostra dislivelli erbosi solcati da decine di cavalli, nobili animali che aprono dinanzi a noi una immaginaria porta, rivelandosi quali guide verso il Tempio dedicato alla nuda roccia, oltre che corrispondenti con il simbolismo iniziatico della montagna.

Compagno di viaggio di coloro che affrontano il pericolo dell’ignoto di altre dimensioni, il cavallo nell’antichità era il mezzo esoterico dei guerrieri che riuscendo a controllarne la forza uranica si realizzavano spiritualmente; fallire in questa impresa corrispondeva a cadere disarcionati durante il combattimento, lo stesso destino che attende chi dà del “tu” alla montagna.

Proseguendo nel percorso e superata la stazione della seggiovia, alla pendenza costante, al manto verde ed al campo aperto si và man mano sostituendo un pratico sentiero sviluppato tra sedimenti rocciosi.

Da qui lo sguardo può assistere al deprimente spettacolo della civiltà moderna e l’apporto mortifero pervenuto dalla “cultura” industriale: nessuna valutazione positiva può giungere da anti-estetici formicai cementificati ed inquiete arterie brulicanti macchine ed esistenze smaniose di “vivere”.

Sotto i nostri umili occhi è ritratto il complesso vitale del materialismo arimanico dal quale ci stiamo distanziando.

Entriamo così nella cattedrale elementare accolti da un sacro silenzio. La montagna immobile nella sua grandiosa imperturbabilità ed eterna presenza è l’esatta antitesi dello scenario sottostante, fugace ed inconsistente;  sintomatico il fatto che la tecnologia non riesca a funzionare tra queste mura oppure, nel confronto con la natura, perda l’indispensabilità che la contraddistingue “a valle” favorendo di conseguenza la volontà individuale e lo spirito di sopravvivenza cameratesco, forze formatrici sopite dal contro-iniziatico individualismo collettivista.

Rinvigoriti dall’avvicinamento alla meta raggiungiamo infine il Rifugio Franchetti (2.433mt) nel quale pernotteremo. La notte avrà il merito di ripristinare le energie necessarie al giorno successivo.

All’indomani, per le 10.30, siamo di fronte alla via d’accesso Orientale del Corno Grande.

I componenti, esperto - intermedio - novizio [il sottoscritto], affrontano tutti e tre per la prima volta il sentiero ferrato Enrico Ricci ritenuto da molti, tra guide ed internauti, un percorso facile.

Dal canto mio non avallo alcuna graduatoria poiché l’impegno deve essere massimo in ogni circostanza, da considerarsi sempre inesplicabile “l’immensa lingua cifrata dell’esistenza” (2), sia per entrare in sintonia con l’anima della montagna che non accetta facili confidenze sia per scongiurare i fatali episodi con spesso protagonisti i cosiddetti faciloni domenicali, con i quali è meglio non confondersi.

Tornando a noi, il misto via ferrata/normale ci porta a monte dell'Anticima (2.700mt) dal quale avvistiamo, all’interno di una cornice nuvolosa estremamente evocativa, sul lato est il profilo del Paretone, ad ovest il ghiacciaio del Calderone, il più meridionale d’Europa.

Il Sole, fin ora nascosto, vincerà le nubi per aprirci il cammino in direzione della Vetta Orientale (2.903mt).

La sensazione è quella di trovarsi al cospetto di potenti numi: la grigia foschia, il sibilo del vento ed il fragore del tuono, attestano ormai rotto il silenzio degli déi. Stiamo assistendo al Ragnarøkkr, la fase crepuscolare che segna lo scontro tra elementi del cosmo e creature inferiori del caos.

Arrivati all’ardua cima, ci sediamo con solennità, esultanti di gloria in su la Vetta (3).

Sostiamo per un periodo altrove scandito da indifferenziati secondi e minuti; trasportati in una dimensione Reale, il vuoto non rappresenta più l’autodistruttivo nichilismo piuttosto il massimamente pieno, la congiunzione della triplicità energetica tradizionalista macrocosmica (nel taoismo Yin, Yang, Yuan) e microcosmica (fisico, mentale, astrale), dove esistiamo al di là della relatività spazio-temporale.

L’invisibile incontro tra cielo e terra ricorda quello che ebbe a scrivere il Matzke : “la natura è il grande regno delle cose [che non] chiedono reazioni sentimentali, che ci stanno dinnanzi mute come un mondo a sé, esternamente estraneo. […] Distacco completo da tutto quanto è solamente soggettivo, da ogni vanità e nullità personale.” (4)

Le prime avvisaglie dell’imminente pioggia ci obbligano a lasciare la Vetta per tornare al rifugio.

Il percorso che ci porterà indietro non presenta alcuna corda fissa e sarà reso impervio, oltre che da zaini e fatica accumulata, dalla roccia scivolosa. Sarà obbligatorio conservare la calma nei punti più pericolosi.

Simili prove non si superano privandosi della consapevolezza circostante ed interiore: il “coraggio” romantico, per come viene concepito da certi ideali passionali, è frutto della irrazionalità naturalista.

Il vero coraggio è virile ovvero un rito auto-sacrificante nel quale si presenzia nelle vesti di sacerdote ed offerta.

Non si tratta d’essere incoscienti, cioè di lasciare il dominio del proprio Sé all’inconscio, funzionamento base della mente umana (5), ma di sovvertire la natura fallace e risvegliarsi sopra di essa superiormente coscienti soprattutto dei limiti umani, così da evitare una drammatizzazione del simbolismo titanico.

Alle 14.00 siamo di nuovo al rifugio, dopo varie peripezie appesi a scoscese rupi, o “sciando” su veloci ghiaioni.

La pioggia non ci ha dato tregua un minuto, quasi volesse benedire fin all’ultimo passo la nostra azione indotta dalle stesse forze elementari.

Lasciamo il Gran Sasso ed il Sole torna a splendere illuminando versanti scalati e discesi.

Il percorso diventa sempre più “irreale” mentre facciamo ritorno al mondo moderno …



Tommaso - Firenze.





NOTE:

1. Lao Tzu, Tao te Ching cap. LXIV

2. cit. Friedrich Nietzsche

3. Omero, Iliade libro VIII cap.65

4. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, p.112

5. Marco Della Luna, Neuro Schiavi, p.75





Associazione Culturale Tyr Perugia







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