lunedì 31 agosto 2009

Il reality ti uccide.

ROMA - Un trentaduenne pakistano, Saad Khan, é morto in Thailandia durante le riprese di un reality show, annegando in un laghetto mentre partecipava a una delle prove di resistenza fisica previste dalla trasmissione.



Lo hanno riferito fonti della Unilever, sponsor del programma. La notizia della morte del concorrente, che lascia la moglie e quattro figli, era stata inizialmente riportata dall’e-magazine pakistano Aarpix.com, che ne aveva appreso dalla famiglia della vittima, e poi era finita su una serie di blog e su Twitter. Secondo tali informazioni, riportate anche dal magazine specializzato Advertising Age, Khan sarebbe morto durante una “sfida subacquea” proposta da una ospite dello show, la modella pakistana Amina Sheikh. Durante la prova a nuoto, il concorrente doveva anche trasportare un peso di sette chili.



Le autorità thailandesi - il reality show veniva prodotto a Bangkok - hanno aperto un’inchiesta e disposto l’autopsia sul corpo della vittima. “E’ stato un tragico incidente - ha detto Tim Johns, portavoce locale del gruppo Unilever -. Siamo scioccati da quanto è successo e il nostro pensiero va alla famiglia. Al momento stiamo seguendo tutti gli accertamenti e contiamo di andare fino in fondo alla cosa”. Intanto, la produzione del programma è stata sospesa.


Da: www.ansa.it

sabato 29 agosto 2009

Per una società della « decrescita» .


All’attuale società dello sviluppo, vi è chi contrappone quella dell’equilibrio e della sobrietà. Quale dovrà essere il rapporto quotidiano con i mezzi tecnologici (di qualunque tipo, dalla TV al computer) in un tale modello di società? In altri termini, è possibile pensare ad una società diversa comunque intrecciata con la tecnologia? Oppure gli stessi mezzi tecnologici sono – in virtù della loro sola presenza – i « cavalli di troia»  dello sviluppo?


Alain de Benoist. La politica è allo stesso tempo l’arte del possibile e l’arte di rendere possibile ciò che è necessario. Il realismo impone di prendere la società per quella che è, non certo per assecondarla, piuttosto perché ogni progetto ha bisogno di basarsi sulla realtà, non sui fantasmi o sulla nostalgia. La tecnologia funziona «da se» nel senso che il suo intrinseco principio dice che tutto ciò che è tecnicamente possibile, verrà effettivamente realizzato. Per rapportarsi ad essa, ritengo che ci siano tre semplici regole da rispettare. La prima consiste nell’effettuare delle scelte riguardo alle nuove tecnologie, chiedendosi quali siano quelle di cui abbiamo realmente bisogno. Il computer mi è molto utile, la televisione decisamente meno. Riguardo al telefono cellulare, personalmente non lo possiedo – e non vedo per cosa potrebbe servirmi. Essere «raggiungibile in ogni momento» per me non è un vantaggio, quanto piuttosto un incubo. (Per esser franco, non ho mai compreso la passione degli Italiani per il loro telefonino, soprattutto quando si tratta di italiani ostili al dispiegamento della tecnoscienza e della globalizzazione). La seconda regola riguarda l’utilizzo che si fa della tecnologia. Può esistere un uso « intelligente » (guardare alla televisione un programma specifico, che si reputa interessante) o un uso stupido (fare passivamente zapping da un canale all’altro). Infine la terza regola : prendere coscienza dell’ambiguità o dell’ambivalenza intrinseca dell’intero « progresso » tecnologico. Internet, per esempio, è un evidente vettore della globalizzazione (con l’abolizione dello spazio e del tempo), ma può anche essere uno dei mezzi più appropriati per combatterla.


Gruppo Opìfice. La « sensibilità ecologica»  appare l’unica in grado di contrastare « la necessità dello sviluppo» . Il superamento della concezione sviluppista presuppone una decrescita? Se sì, cosa si intende e come si realizza?


Alain de Benoist. Sarebbe errato immaginare la «decrescita» come un appello ad un ritorno al passato o ad una brutale degradazione del livello di vita. Questo tema è stato lungamente studiato da Serge Latouche nella sua critica allo «sviluppo sostenibile» (che non è altro che un modo di rinviare o ritardare le scadenze). Prima ancora che una prospettiva economica, le cui implicazioni tecniche non possono essere qui esaminate, la «decrescita» riguarda la sfera della mentalità. Si tratta di cominciare a far «decrescere» l’idea che lo «sviluppo» degli scambi mercantili sia una legge naturale della vita. Il messaggio che pubblicità e media diffondono continuamente è che il benessere passa attraverso il consumo, ovvero attraverso l’appropriazione continua di una quantità sempre maggiore di oggetti. L’assimilazione di tale messaggio dalle coscienze equivale ad una vera e propria colonizzazione dell’immaginario simbolico, dunque non a torto si può parlare di un mutamento antropologico (l’uomo concepito esclusivamente come produttore-consumatore). Per rompere con il primato dell’economia, è necessario imparare ed essere capaci di dire, in numerose circostanze : «è sufficiente» oppure «è abbastanza» piuttosto che: «sempre di più!»


Tratto da: it.novopress.info


La luna, una bufala?

Olanda: è falso il pezzo di Luna esposto al Museo Nazionale. È legno fossile. Era stato donato nel 1969 al primo ministro olandese Drees dall’ambasciatore americano



AMSTERDAM - Il sasso di provenienza lunare da vent’anni nelle collezioni del Museo Nazionale olandese di Amsterdam è falso. Cioè non proviene dalla Luna: un’analisi geologica approfondita ha dimostrato senza ombra di dubbio che si tratta di legno fossile. E a meno di ipotizzare che sul nostro satellite naturale ci siano foreste pietrificate - cosa che neanche il più folle scrittore di fantascienza si sognerebbe mai - l’oggetto in questione non è stato raccolto dagli astronauti dell’Apollo 11, come finora si era pensato. «Non vale più di 50 euro», ha commentato il geologo Frank Beunk. Ma se è falso, come è arrivato in uno dei musei europei più prestigiosi?



INTRIGO POLITICO - Il finto reperto ha padri più che nobili e probabilmente del tutto ignari della «bufala», che a questo punto si può ipotizzare messa in atto dalla Nasa o dal dipartimento di Stato americano. Il sasso arrivò al Rijksmuseum nel 1988, dopo la scomparsa dell’ex primo ministro olandese Willem Drees. Il reperto faceva parte della collezione personale del premier e gli venne donato il 9 ottobre 1969 dall’allora ambasciatore americano in Olanda, J. Williams Middendorf, in occasione della visita promozionale nei Paesi Bassi dei tre astronauti dell’Apollo 11. I nomi dei cinque protagonisti «dell’intrigo internazionale» sono infatti riportati nel cartellino che accompagna la roccia. Dopo la missione di Apollo 11, gli Stati Uniti mandarono in giro per il mondo (24 nazioni in 45 giorni) i tre astronauti in un tour promozionale, portando in dono vari reperti raccolti sulla Luna. Uno di questi - raccolto però dall’Apollo 17 - è conservato anche al Museo di scienze naturali di Milano, anche se non gli viene dato troppa evidenza.



DUBBI - Alcuni dubbi sull’autenticità del campione olandese sorsero nel 2006, in occasione della prima esposizione al pubblico del reperto. Un esperto di voli spaziali fece notare che la maggior parte dei reperti regalati dagli americani a un centinaio di nazioni (tra le quali appunto l’Italia) non proviene dall’Apollo 11, ma da missioni successive. Ed è inoltre molto strano che la Nasa avesse regalato una preziosissima roccia lunare a soli due mesi e mezzo dal ritorno sulla Terra di Armstrong, Aldrin e Collins, prima ancora di aver avuto il tempo di analizzarla. Arrivando però dalla collezione di un ex primo ministro, nessuno aveva avuto dubbi, anche se ricercatori della Free University di Amsterdam avevano detto che «a vista» si capiva che quel pezzo non poteva venire dalla Luna. L’ex ambasciatore Middendorf, ora in pensione in Rhode Island, contattato da organi di informazione olandesi, ha detto di non ricordare più a distanza di 40 anni tutti i dettagli ma di essere sicuro che la roccia gli venne consegnata dal dipartimento di Stato Usa.



RISATA - Che fine farà ora il reperto? «La terremo da parte come una curiosità», ha detto Xandra van Gelder, portavoce del museo. «È una bella storia, con molte domande che non hanno ancora una risposta. Comunque possiamo farci una risata». Anche perché questo fatto non farà che rinfocolare le teorie di chi crede che l’uomo non sia mai stato sulla Luna e tutto sia stata una grande presa in giro.


Da: www.corriere.it

Ancora torture democratiche...

Mohammed Jawad è stato liberato dopo 7 anni di prigionia: ora da Kabul racconta maltrattamenti e torture e chiede giustizia e aiuto



Mohammed Jawad oggi ha 19 anni, i baffi e la barba scura gli danno un’aria da uomo, ma negli occhi, che non sanno se essere timidi o aggressivi, sembra di leggere ancora il dolore e lo spavento del ragazzino di 12 anni che era nel 2002, quando venne arrestato a Kabul per aver lanciato una granata contro un veicolo militare americano e quindi spedito a Guantanamo.

Prigioniero per sette anni nel penitenziario dei terroristi, il più duro e discusso d’America, da lunedì Mohammed è un uomo libero: rilasciato dopo che le indagini governative sull’attacco si sono rivelate “un oltraggio” e “piene di buchi”, è tornato a Kabul per riabbracciare la famiglia, ma nella felicità del momento non dimentica la durezza della prigionia e annuncia di voler fare causa al governo degi Stati Uniti per i maltrattamenti subiti e, soprattutto, per gli anni dell’adolescenza che gli sono stati rubati.



“Ero un bambino innocente quando mi hanno portato in prigione”, ricorda Jawad, “Non avevo fatto niente, mi hanno arrestato per nulla. Tutto quello che potevo fare era sperare che un giorno sarei stato libero e sarei tornato in Afghanistan da mia madre”.

Il Pentagono sostiene che, in base ad un’esame delle ossa realizzato mentre era in carcere, Mohammed non aveva 12 anni, ma 17, al momento dell’arresto: qualunque fosse la vera età, restano sette anni di giovinezza persi e il racconto delle torture e degli insulti all’Islam e al Corano che hanno costituito la vita quotidiana del ragazzo a Guantanamo.

Jawad non scende nei dettagli: “Era una prigione e non ero certo felice lì: non stavo molto bene”, racconta soltanto, stringendosi nelle spalle. Ma alcuni attivisti per i diritti umani, che hanno seguito la sua vicenda, parlano di 152 episodi di maltrattamento subiti dal ragazzo in una sola settimana e anche Jawad, alla fine, accenna a manette ai polsi, mani strette dietro la schiena, privazione del sonno, botte e minacce: proprio le minacce di morte a lui e alla sua famiglia, spiega Jawad, lo hanno indotto a confessare di aver lanciato quella granata.



A dispetto della giovane età, è stato trattato come un adulto, osserva il legale di Mohammed, Eric Montalzo: avvocato militare assegnato d’ufficio al ragazzo, Montalzo continuerà a seguirne il caso in attesa che si faccia luce sulle reali responsabilità. “Non permetterò che gli sia negata l’assistenza di cui ha bisogno”, assicura l’avvocato: Jawad ha bisogno di assistenza psicologica e anche di sostegno per ricominciare a studiare, ora che ha deciso di diventare dottore dopo aver visto quel che il personale medico faceva per i prigionieri a Guantanamo.

Il presidente Hamid Karzai, che ha ricevuto il giovane per un meeting privato di benvenuto, ha già promesso a Mohammed e alla sua famiglia una casa a Kabul, ma nel futuro del ragazzo potrebbero esserci altri piani: forse una carriera universitaria negli Stati Uniti, se le ferite provocate dall’America, lentamente, si rimargineranno.


Da: www.lastampa.it

mercoledì 26 agosto 2009

Leggenda del Lago Trasimeno.

Niente mostri sul suo fondale. Ma anche il lago Trasimeno, incastonatro nell'Appennino, ha la sua leggenda. E' la storia di un amore tragico e profondo, come si addice alla forma del suo perimetro, nella quale molti intravedono un cuore. Attorno al lago - raccontano i pescatori - sembra aleggi ancor oggi lo spirito della ninfa Agilla, che piange il dolore per la perdita dell'amato Trasimeno, figlio del re etrusco Tirreno.



Lo sfortunato amore tra la ninfa e Trasimeno sbocciò sull'isola Polvese posta in mezzo al lago. Attirato da un canto angelico, Trasimeno raggiunse l'isola. E lì Trasimeno e Agilla si trovarono uno di fronte all'altra. Fu amore a prima vista.



Il re Tirreno, contrario alle nozze, diede il suo consenso solo dopo molte reticenze. Ma il destino era avverso, e la felicità dei due durò solo un giorno.



La mattina seguente le nozze, Trasimeno decise di fare un bagno nel lago. Agilla lo guardava dalla riva. Il giovane, improvvisamente, finè sott'acqua e non tornò a galla. Il suo corpo non venne più ritrovato.



Agilla non si diede per vinta. Giorno dopo giorno, continò a cercarlo e non perse la speranza di riabbracciare il suo Trasimeno. La ninfa finì i suoi giorni su una barca in mezzo al lago, controllando tutte le imbarcazioni alla ricerca dell'amato.



I pescatori raccontano che d'estate, quando soffia il vento dalla Toscana, si sente il pianto di Agilla. E, se all'improvviso si alza un'onda che rischia di fare rovesciare le barche: è la ninfa che crede di avere ritrovato Trasimeno.



Esistono altre versioni di questa leggenda, che vedono il bellissimo Tirreno sequestrato dalla ninfa Agilla, innamorata di lui. Durante la prigionia, Tirreno iniziò a ricambiare i sentimenti della ninfa, e quando dovette ritornare alla reggia pianse così tanto che le sue lacrime diedero vita al lago.



In realtà, il nome del lago sembra avere origini meno fantasiose. Secondo alcuni, sarebbe stato un semplice dono di nozze del re Tirreno al figlio. Ma più verosimilmente il nome avrebbe origine dalla posizione geografica del lago stesso: Trasimeno significherebbe "oltre il monte Imeno - o Menio - " come in epoca preromana si chiamava la montagna che a nord delimita il lago.



Di
Jenny Maggioni, tratto da: www.montagna.org

venerdì 21 agosto 2009

OFFENSIVA BIRMANA. IN CAMPO ARMI PRODOTTE CON LA COLLABORAZIONE DI TEL AVIV.

L'esercito birmano prepara una nuova offensiva contro la 6° Brigata Karen. In campo le armi costruite con l'aiuto di Israele. Continuano le brutalità contro la popolazione civile.



Massiccia concentrazione di forze armate a ridosso del Three Pagoda Pass, nello stato
Karen. L'esercito di Rangoon ha ammassato munizioni e uomini in previsione dell'attacco che verrà lanciato contro il comando della 6° Brigata del KNLA, l'Esercito di Liberazione Nazionale Karen. Un migliaio di soldati stanno ingrossando le fila dello schieramento birmano, che conta anche sull'appoggio di alcune centinaia di partigiani collaborazionisti del DKBA. Obiettivo dei generali di Rangoon è la conquista del centro di Maekatha, principale base del KNLA. La zona del Three Pagoda Pass è di estrema importanza per le forze che si contrappongono: qui infatti c'è una fiorente attività di taglio di legname pregiato e la resistenza Karen riesce ancora ad imporre tasse al passaggio di ingenti quantità di merci in transito verso la Thailandia. Conquistare la zona significherebbe privare la resistenza di una fondamentale fonte di autofinanziamento. Le truppe birmane sono state equipaggiate con fucili d'assalto MA1, MA2, MA3 e MA4, armi costruite in Birmania da industrie nazionali (MA è acronimo di Myanmar Army) grazie alla collaborazione della Israeli Military Industries. I fucili sono in pratica copie del Galil, arma in dotazione all'esercito di Tel Aviv. Nelle ultime settimane si sono ripetuti gli attacchi contro i villaggi Karen e Shan nell'est del Paese. I bilanci sono copie di quelli tante volte forniti in passato: civili uccisi, torturati, donne stuprate. Dal 27 luglio, nella sola regione Shan, gli abitanti di ben 40 villaggi sono stati "trasferiti" in aree controllate dalla giunta. Sono state bruciate 500 abitazioni per incoraggiare il trasferimento e le organizzazioni di monitoraggio delle violazioni dei diritti umani hanno raccolto le prove di una decina di esecuzioni sommarie ai danni di civili inermi (diverse donne tra di essi). Una ragazza è stata uccisa da un colpo di fucile mentre tentatva di recuperare qualche indumento dalla sua casa in fiamme. Il suo cadavere è stato poi gettato in una latrina. Un'altra ha subito violenza di gruppo di fronte al marito da parte di un ufficiale birmano e di tre soldati.



www.comunitapopoli.org

mercoledì 19 agosto 2009

FIGLI DELLA DECADENZA.

Non è più il tempo delle bambole e degli orsacchiotti, ora le giovani teenager, tendono a diventare belle e ricche.



Non bastava la ‘tv-spazzatura’ piena di immagini e inviti a diventare sexy, snelle e rifatte, ora un videogame insegna a diventare veline. L’idea ‘rivoluzionaria’, si fa per dire, è venuta in Francia con il sito www.ma-bimbo.com ed è poi stata esportata anche in Inghilterra con il sito www.missbimbo.com. Dopo essersi iscritti al sito, si ha diritto a dei fanta-dollari con i quali è possibile fare di tutto e di più. L’obiettivo del gioco è di diventare più carine, conquistare un fidanzato rigorosamente ricco e passare il tempo a comprare gioielli e vestitini. Non mancano certo gli interventi di chirurgia, il cosiddetto ‘ritocchino’, sempre più usato per essere all’ultima moda. Le teenager ne vanno pazze, si scambiano il contatto tramite sms e facebook e il risultato è che questi siti hanno più di 70.000 contatti mensili. La società ‘veliniana’ diventa quindi un mito da copiare e imitare per essere all’avanguardia in un sistema allo sbando dove i valori di una volta vengono messi da parte per essere fotocopie – brutte, sia chiaro! – l’uno dell’altro. E la famiglia? La famiglia, ormai semilatitante, preferisce delegare il tutto alla tv e a internet invece di formare ed educare i propri figli. Qualcuno, addirittura, dice che non c’è nulla di male, in fondo, è quello che ogni giorno siamo costretti ad ingurgitare davanti alle tv. Forse però si sono dimenticati che il maggior numero di teenager che segue questi giochi hanno un’età compresa tra i 9 e i 10 anni e che così facendo, saranno convinti che la bellezza sia l’unico modo per conquistare successo. Inutile dire che tutto questo sia sintomo di una società figlia della decadenza che ha perso completamente i valori tradizionali e che, ancora una volta, si è persa la possibilità di trasformare internet come virus in internet come antivirus…



Articolo di Fabio Polese, tratto da www.tifogrifo.com

mercoledì 12 agosto 2009

La vita senza una Vetta è vagabondaggio.



«Un albero che a braccia aperte si misura

nasce da un minuscolo arboscello,

una torre di nove piani

comincia con un cumulo di terra,

un viaggio di mille miglia

principia con un solo passo.»



Questa massima (1) tratteggia lo spirito che ha guidato tre uomini di Vetta, sempre più in alto, fino alla sommità del romano Fiscellus Mons (Monte Ombelico, per la posizione centrale nella penisola italica) o Gran Sasso d’Italia, il più elevato massiccio montuoso degli Appennini. Un’esperienza che cercherò di descrivere nella sua essenza trascendente, evitando un semplice resoconto dei fatti.

Cominciamo l’avventura con quello che a prima vista può sembrare un fastidioso intoppo:  arrivati al piazzale dei Prati di Tivo (1.450mt) veniamo informati circa l’inagibilità della seggiovia che ci avrebbe fatto guadagnare un ora di viaggio portandoci direttamente a quota 2.015mt.

Per cui si procede a piedi dalla Piana del Laghetto offrendo sempre meno rilevanza alla dissestata costruzione metallica ed al suo mediocre utilizzo.

L’apparente contrattempo avrà come ricompensa un impareggiabile visione: la bianca e mistica nebbia incontrata dopo il primo pendio ci mostra dislivelli erbosi solcati da decine di cavalli, nobili animali che aprono dinanzi a noi una immaginaria porta, rivelandosi quali guide verso il Tempio dedicato alla nuda roccia, oltre che corrispondenti con il simbolismo iniziatico della montagna.

Compagno di viaggio di coloro che affrontano il pericolo dell’ignoto di altre dimensioni, il cavallo nell’antichità era il mezzo esoterico dei guerrieri che riuscendo a controllarne la forza uranica si realizzavano spiritualmente; fallire in questa impresa corrispondeva a cadere disarcionati durante il combattimento, lo stesso destino che attende chi dà del “tu” alla montagna.

Proseguendo nel percorso e superata la stazione della seggiovia, alla pendenza costante, al manto verde ed al campo aperto si và man mano sostituendo un pratico sentiero sviluppato tra sedimenti rocciosi.

Da qui lo sguardo può assistere al deprimente spettacolo della civiltà moderna e l’apporto mortifero pervenuto dalla “cultura” industriale: nessuna valutazione positiva può giungere da anti-estetici formicai cementificati ed inquiete arterie brulicanti macchine ed esistenze smaniose di “vivere”.

Sotto i nostri umili occhi è ritratto il complesso vitale del materialismo arimanico dal quale ci stiamo distanziando.

Entriamo così nella cattedrale elementare accolti da un sacro silenzio. La montagna immobile nella sua grandiosa imperturbabilità ed eterna presenza è l’esatta antitesi dello scenario sottostante, fugace ed inconsistente;  sintomatico il fatto che la tecnologia non riesca a funzionare tra queste mura oppure, nel confronto con la natura, perda l’indispensabilità che la contraddistingue “a valle” favorendo di conseguenza la volontà individuale e lo spirito di sopravvivenza cameratesco, forze formatrici sopite dal contro-iniziatico individualismo collettivista.

Rinvigoriti dall’avvicinamento alla meta raggiungiamo infine il Rifugio Franchetti (2.433mt) nel quale pernotteremo. La notte avrà il merito di ripristinare le energie necessarie al giorno successivo.

All’indomani, per le 10.30, siamo di fronte alla via d’accesso Orientale del Corno Grande.

I componenti, esperto - intermedio - novizio [il sottoscritto], affrontano tutti e tre per la prima volta il sentiero ferrato Enrico Ricci ritenuto da molti, tra guide ed internauti, un percorso facile.

Dal canto mio non avallo alcuna graduatoria poiché l’impegno deve essere massimo in ogni circostanza, da considerarsi sempre inesplicabile “l’immensa lingua cifrata dell’esistenza” (2), sia per entrare in sintonia con l’anima della montagna che non accetta facili confidenze sia per scongiurare i fatali episodi con spesso protagonisti i cosiddetti faciloni domenicali, con i quali è meglio non confondersi.

Tornando a noi, il misto via ferrata/normale ci porta a monte dell'Anticima (2.700mt) dal quale avvistiamo, all’interno di una cornice nuvolosa estremamente evocativa, sul lato est il profilo del Paretone, ad ovest il ghiacciaio del Calderone, il più meridionale d’Europa.

Il Sole, fin ora nascosto, vincerà le nubi per aprirci il cammino in direzione della Vetta Orientale (2.903mt).

La sensazione è quella di trovarsi al cospetto di potenti numi: la grigia foschia, il sibilo del vento ed il fragore del tuono, attestano ormai rotto il silenzio degli déi. Stiamo assistendo al Ragnarøkkr, la fase crepuscolare che segna lo scontro tra elementi del cosmo e creature inferiori del caos.

Arrivati all’ardua cima, ci sediamo con solennità, esultanti di gloria in su la Vetta (3).

Sostiamo per un periodo altrove scandito da indifferenziati secondi e minuti; trasportati in una dimensione Reale, il vuoto non rappresenta più l’autodistruttivo nichilismo piuttosto il massimamente pieno, la congiunzione della triplicità energetica tradizionalista macrocosmica (nel taoismo Yin, Yang, Yuan) e microcosmica (fisico, mentale, astrale), dove esistiamo al di là della relatività spazio-temporale.

L’invisibile incontro tra cielo e terra ricorda quello che ebbe a scrivere il Matzke : “la natura è il grande regno delle cose [che non] chiedono reazioni sentimentali, che ci stanno dinnanzi mute come un mondo a sé, esternamente estraneo. […] Distacco completo da tutto quanto è solamente soggettivo, da ogni vanità e nullità personale.” (4)

Le prime avvisaglie dell’imminente pioggia ci obbligano a lasciare la Vetta per tornare al rifugio.

Il percorso che ci porterà indietro non presenta alcuna corda fissa e sarà reso impervio, oltre che da zaini e fatica accumulata, dalla roccia scivolosa. Sarà obbligatorio conservare la calma nei punti più pericolosi.

Simili prove non si superano privandosi della consapevolezza circostante ed interiore: il “coraggio” romantico, per come viene concepito da certi ideali passionali, è frutto della irrazionalità naturalista.

Il vero coraggio è virile ovvero un rito auto-sacrificante nel quale si presenzia nelle vesti di sacerdote ed offerta.

Non si tratta d’essere incoscienti, cioè di lasciare il dominio del proprio Sé all’inconscio, funzionamento base della mente umana (5), ma di sovvertire la natura fallace e risvegliarsi sopra di essa superiormente coscienti soprattutto dei limiti umani, così da evitare una drammatizzazione del simbolismo titanico.

Alle 14.00 siamo di nuovo al rifugio, dopo varie peripezie appesi a scoscese rupi, o “sciando” su veloci ghiaioni.

La pioggia non ci ha dato tregua un minuto, quasi volesse benedire fin all’ultimo passo la nostra azione indotta dalle stesse forze elementari.

Lasciamo il Gran Sasso ed il Sole torna a splendere illuminando versanti scalati e discesi.

Il percorso diventa sempre più “irreale” mentre facciamo ritorno al mondo moderno …



Tommaso - Firenze.





NOTE:

1. Lao Tzu, Tao te Ching cap. LXIV

2. cit. Friedrich Nietzsche

3. Omero, Iliade libro VIII cap.65

4. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, p.112

5. Marco Della Luna, Neuro Schiavi, p.75





Associazione Culturale Tyr Perugia







giovedì 6 agosto 2009

Ingegnere fai da te sfida il petrolio, da quindici anni vive senza energia.

Da quindici anni ha disdetto il contratto di fornitura elettrica e fa a meno della benzina per la sua auto. Nei giorni del caro carburante l’ingegnere ambientalista che promette di far sparire il petrolio dalla vita dei suoi concittadini vive a Barano d’Ischia, uno dei comuni dell’isola del golfo di Napoli. Di sè, Agostino De Siano nel presentarsi dice: «Sono l’ingegnere che farà scomparire la necessità di usare il petrolio visto che per me è già scomparso». La trovata che gli consente di essere autosufficiente dal punto di vista energetico è un impianto innovativo che garantisce l’energia alla propria abitazione. Per gli spostamenti, invece, si serve di un’ auto elettrica cui ha aggiunto dei pannelli solari.



«Sono pienamente autosufficiente sia dalla rete elettrica che dai petrolieri - spiega l’ingegnere - da 15 anni non ho l’energia elettrica, provvedendo con l’impianto ad energia fotovoltaica e con gli accumulatori. Negli ultimi anni ho anche, drasticamente, eliminato la necessità di approvvigionamento della fornitura di carburante utilizzando una macchina elettrica (che viene ricaricata anche con l’impianto fotovoltaico di casa, ndr). Il mio impianto - precisa l’ingegnere - è del tutto indipendente dal gestore di energia elettrica. In nessuna altra parte del mondo esiste un impianto del genere, da me progettato dopo anni di studio ed esperimenti. La sua particolarità è l’utilizzo di un ponte alimentato ad alta tensione da 300 volt continui a 220 volt alternata senza adoperare il comune trasformatore/elevatore, sia esso normale trasformatore a lamierino in silicio (o swithcing)».



«Il sistema da me adottato sulla vettura che utilizzo - aggiunge De Siano - fornisce completa autonomia per lo spostamento urbano e a media percorrenza, per quelli a lunga percorrenza sono già in fase di produzione veicoli commerciali e ad uso privato con batterie a litio che entreranno in vendita nei prossimi annì. E anche i costi - a sentire l’ingegnere - non sono improponibili per chi vuole abbracciare uno stile di vita alternativo: ’Il costo maggiore da sostenere - conclude l’Archimede dei nostri giorni - è quello per ottimi accumulatori per uso stazionario, ma un consumo di massa ridurrebbe ulteriormente il costo di questi accumulatori. Il costo complessivo di tutto l’impianto viene ammortizzato in 6/7 anni grazie all’azzeramento totale della bolletta per l’energia elettrica e all’azzeramento totale del combustibile da petrolio».



Tratto da www.lastampa.it

L'Alleanza Atlantica deve rifarsi il trucco entro un anno.

Diamo un senso alla Nato. Questo sembra essere lo slogan degli esordi del “nuovo corso” della cosiddetta Alleanza Atlantica. Il suo segratario, l'ex premier danese Rasmussen ha nominato alla testa del gruppo dei saggi che prima del vertice di Lisbona del 2010 dovranno ridisegnare il senso della coalizione la bellicosa Albright che già si contraddistinse ai tempi di Clinton per l'esuberanza guerrafondaia. Il ruolo chiave, quello del vicesegretario della commissione, è invece andato a Jerome van der Veer, amministratore delegato del gruppo Shell; non serve praticamente più mascherare le priorità degli interessi che l'Alleanza cura. Da quando la “guerra fredda” si è interrotta, la motivazione ufficiale di difesa dalle ingerenze sovietiche è svanita. Eppure l'Alleanza non si è sciolta. Con la pretesa di “combattere il terrorismo” la Nato pesegue tre obiettivi precisi.

Il primo è quello di controllare militarmente i luoghi nevralgici dell'energia (gas, petrolio) e della coltivazione delle droghe che, come abbiamo rilevato in uno studio comparato realizzato dal Centro Studi Polaris, come per caso coincidono con quelli della produzione energetica che, resi instabili, sono dominati dalle Multinazionali.



Il secondo fine della Nato è quello di tenere sottomessi e inquadrati, da parte americana, tutti i partners in grado di autonomizzarsi e di coinvolgerli nella guerra di posizione nei confronti delle potenze in condizioni di competere seriamente con l'unipolarismo (cioè Russia e Cina) e, particolarmente, nella zona strategicamente vitale e maggiormente contesa dell'Asia a nord-est dell'Afghanistan.



Il terzo scopo è quello di destabilizzare le nazioni che potrebbero dialogare con l'Europa, la grande ossessione e il grande odio dell'ideologia americana. In particolare la Nato si occupa, perciò, di sconvolgere le nazioni arabe laddove la sua opera destabilizzatrice produce fondamentalismo religioso e faide tribali corrodendo unità nazionali ed economie di sviluppo. Un obiettivo collaterale, ovvero impedire l'attrazione nell'area dell'euro è infine una condizione imprescindibile degli strateghi che presideono alla politica militare dell'Alleanza.



Nessuno degli adetti ai lavori ignora le reali ragioni della Nato. Alcuni vi sottostanno perché, come i paesi scandinavi, non hanno alcun interesse geopolitico; altri, come la Polonia o la Georgia, si sperticano in servilismo per avere prebende. Altri ancora, specie i principali attori europei, cercano di ritagliarsi spazio con la diplomazia e di garantirsi almeno le briciole in imprese che, in ogni caso, danneggiano innanzitutto le loro nazioni.



Questa è la realtà della Nato. Ora sarà divertente scoprire quale formula ufficiale sapranno escogitare i saggi per giustificare un'Alleanza che, come a suo tempo quella Attica, non ha alcun senso di esistere salvo quello della potenza egemone di sventare le altrui autonomie.


Di Gabriele Adinolfi, www.noreporter.org

martedì 4 agosto 2009

La strage di Bologna fu attribuita arbitrariamente ai fascisti il 4 agosto 1980.

COMUNICATO STAMPA


 





  1. Il 4 agosto 1980 Francesco Cossiga, al tempo Presidente del Consiglio dei Ministri, dichiarò in Parlamento che l’attentato alla Stazione di Bologna era un attentato “fascista”, sostenendo che “non da oggi si è delineata la tecnica terroristica di timbro fascista…il terrorismo nero ricorre essenzialmente al delitto di strage perché è la strage che provoca paura, allarme, reazioni emotive e impulsive”.





 





  1. Il 15 marzo 1991 Francesco Cossiga, divenuto nel frattempo per meriti di “servizi” Presidente della Repubblica, affermò davanti al Comitato per i Servizi di sicurezza di essersi sbagliato nel definire “fascista” la strage del 2 agosto e, oltre a presentare le scuse ad alcuni inutili parlamentari del Msi per aver addebitato alla “destra” la strage, sostenne che “il giudizio da me espresso allora fu il frutto di errate informazioni che mi furono fornite dai Servizi e dagli organi di polizia…la subcultura e l’intossicazione erano agganciate a forti lobbies politico-finanziarie”.





 





  1. Il 18 marzo 1991 il nostro redattore Paolo Signorelli (già incriminato e poi prosciolto per la strage) fece sapere attraverso le agenzie di stampa di non accettare le “scuse” di Cossiga ritenendole “patetiche, ridicole e volgari”, aggiungendo che le 85 vittime di un ignobile massacro di popolo esigevano che venisse fatta giustizia. “Il balbettio – aggiunse – di Cossiga a proposito di una subcultura operante sotto le direttive di certe lobbies finanziarie e politiche va trasformato in preciso atto di denuncia e di accusa. Altrimenti si abbia il coraggio di tacere”.





 





  1. Dal 1991 l’invito a parlare viene puntualmente rilanciato ogni anno in occasione della ricorrenza della strage senza che l’esimio esternatore (che pure ci ha magistralmente spiegato il modus operandi dei Servizi da lui diretti al tempo in cui era Ministro di Polizia e recentemente raccontato la sua “ verità” su Ustica e Bologna) nulla dica.





 





  1. La redazione di “Giustizia Giusta” ritiene, dunque, inaccettabile il comportamento omertoso tenuto da Cossiga che oltretutto tenta grottescamente di rilanciare il suo convincimento “innocentista” nei confronti di Mambro e Fioravanti fornendo la spalla alle iniziative di quanti a destra, anche attraverso il comitato “L’Ora della Verità”, cercano di sostenere l’improbabile tesi dello stragismo palestinese a proposito dell’attentato di Bologna, rifiutando di percorrerre altre piste che nel drammatico tic-tac Ustica- Bologna potrebbero ricondurre al Mossad.





 





  1. Il sudario del silenzio che continua a coprire ogni tentativo di ricostruire la strage del 2 agosto ha trasformato il “ragazzino” Luigi Ciavardini nell’unico vero capro espiatorio di una spirale perversa in cui si muovono lobbies di potere, apparati mai deviati e magistrati teorematici.





 






  1. Giustizia Giusta” si farà ancora una volta promotrice di iniziative forti dirette ad ottenere la rimozione del Segreto di Stato perché si possa giungere a conoscere la verità sulle stragi che con cadenze terrifiche hanno per decenni insanguinato la Colonia Italia.




 


Redazione di “GIUSTIZIA GIUSTA”


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11-12-13 Settembre - Perugia

11-12-13 Settembre - Perugia

domenica 2 agosto 2009

Ventinove anni fa.


I colpevoli restano ancora impuniti. Gli innocenti ancora pagano. Le vittime ancora non hanno giustizia.




Ventinove anni fa, alla stazione di Bologna, veniva commessa la più grave strage dell'Italia del dopoguerra. Una strage che s'inserisce nella guerra sporca per allontanare l'Italia dal Mediterraneo. Una strage sulla quale i clan clientelari del partito comunista hanno messo il cappello e su cui speculano da tre decenni. Una strage per la quale i servizi segreti italiani operarono una lunga serie di depistaggi (tutti contro la destra radicale) dandovi inizio addirittura quindici giorni prima che fosse consumata! Un massacro di cui non sono mai stati cercati i colpevoli, al contrario: si è sempre ostentatamente rifiutato di seguire tutte le piste aperte da indizi concreti e si è invece voluto condannare a tutti i costi gente che non aveva neppure un indizio a carico, senza nemmeno discutere le prove tangibili a loro favore. Una strage che vede ancora un innocente in catene. Una strage contro l'Italia di cui sono complici tutti quelli che si sono opposti e che tuttora si oppongono a che sia fatta luce senza pregiudizio alcuno. Non accadrà neppure quest'anno. Le ottantacinque vittime sono derise e insultate ancora. Non riposano in pace.



Di Gabriele Adinolfi, da: www.noreporter.org

02-08-1980 - 02-08-2009

Nel ventinovesimo anniversario della strage di Bologna, uno dei momenti più tragici della storia italiana del dopoguerra, decine e decine di vittime attendono ancora giustizia, e un innocente è tuttora prigioniero.








(Stazione di Perugia, 02-08-08)