«In trappola». Se fosse un romanzo il «report» che ricostruisce passo dopo passo l’incredibile vicenda giudiziaria di Chico Forti si intitolerebbe così. Ma la relazione firmata dalla criminologa Roberta Bruzzone e dal giudice e avvocato Ferdinando Imposimato non ha nulla di romanzato, è solo una lucida analisi degli atti giudiziari, anche quelli «scomparsi» o segreti. Per la prima volta si spiega con argomenti giuridici perché la condanna all’ergastolo inflitta a Chico Forti, detenuto in Florida dall’11 ottobre 1999, viola i più basilari principi del giusto processo.
Le misteriose telefonate.
Quando Dale Pike, la vittima, il 15 febbraio del 1998 atterrò all’aeroporto di Miami ad attenderlo c’era Chico Forti. I due non si conoscevano. L’aereo, proveniente da Madrid, era in ritardo. Per rintracciarsi si cercarono più volte attraverso gli altoparlanti dello scalo. In seguito la polizia trovò vicino al cadavere di Pike una carta telefonica con cui erano state fatte solo tre telefonate in quello stesso 15 febbraio, alle 17 e 13, 17 e 15 e 17 e 18: una a zero secondi (cioè uno squillo senza risposta) all’utenza mobile di Chico e due a zero secondi su un numero quasi identico a quello di Chico digitato forse per errore. Ma quella carta telefonica era in vendita solo fuori dall’area di dogana. Pike, che lasciò la dogana alle 18 e 9 minuti, non poteva averla ancora acquistata e, poiché non era mai stato a Miami, non poteva averlo fatto neppure in passato. Inoltre sulla carta non vennero trovate impronte, come se Pike quella scheda non l’avesse mai toccata. Questo è confermato anche dal fatto che alle 18 e 30, quando si trovava in auto con Chico, Pike chiese di fermarsi ad un distributore per comprare delle sigarette e fare una telefonata. Non usò la scheda, ma della moneta. Per smentire questa circostanza, riferita da Forti nella sua deposizione, la polizia produsse al processo i tabulati da cui non risultava alcuna telefonata dalla cabina della «Gas Station Amoco» nell’ora indicata. Peccato che i tabulati fossero del 15 febbraio 1999, cioè dell’anno successivo.
La messa in scena.
La spiaggia di Sewer Beach, dove venne rinvenuto il cadavere di Dale Pike, racconta molte cose interessanti. Dopo essere stata uccisa con due colpi di pistola calibro 22 sparati alla nuca, la vittima era stata trasportata alla spiaggia. Il cadavere, trascinato sulla sabbia probabilmente dentro un sacco, era stato poi denudato. C’erano pure tracce di sevizie. I vestiti furono rinvenuti vicino al corpo. L’assassino aveva perso tempo per spargere in giro alcuni effetti personali della vittima – carta di imbarco del volo Iberia, ciondolo dell’hotel Pike, modulo della dogana, carta telefonica con cui era stato chiamato Forti – come per essere sicuro che il cadavere venisse riconosciuto subito e che le indagini puntassero verso Forti. Se davvero fosse stato lui l’assassino, o anche solo il mandante, sarebbe stato un pazzo ad agire così.
Diritti calpestati.
Come si ricorda in ogni film americano, quando la polizia ferma un indiziato gli legge i suoi diritti. Ma questo, appunto, succede solo al cinema. Nel caso di Chico Forti ci fu una palese violazione dei cosiddetti diritti Miranda che non vennero letti all’imputato. Anzi di quel primo interrogatorio, senza avvocato, sono sparite anche le registrazioni audio e video. È questo il momento in cui l’indagato, impaurito perché la polizia gli aveva raccontato che anche il padre di Dale Pike era stato ucciso (circostanza falsa), mentì sostenendo di non aver mai incontrato la vittima. Il giorno dopo lo stesso Forti si ripresentò alla polizia di Miami per rettificare la sua precedente deposizione. Venne interrogato per 14 ore, ancora senza avvocato. Tutto ciò in violazione anche dell’accordo di Vienna visto che non vennero mai avvisate le autorità consolari italiane, come conferma una lettera di scuse inviata poi dalla polizia al console. Non solo. Sembra che una delle tecniche di indagine della polizia di Miami sia stata la menzogna. I detectives raccontarono alla moglie di Chico, e probabilmente anche ad altri testimoni, che Forti aveva una doppia vita: che era stato in prigione molte volte, che aveva attività illegali in giro per il mondo, persino che era collegato con la mafia. Un mare di menzogne, una beffa visto che Forti poi venne condannato per aver mentito in un’unica occasione.
Una difesa suicida.
L’avvocato difensore di Chico, Ira Lowey, si trovava in un potenziale conflitto di interessi. Forti lo scoprì per caso, in carcere: tempo dopo la condanna, un detenuto gli raccontò di essere stato processato da un pm che si chiamava Ira Lowey. Si scoprì così che l’avvocato difensore allo stesso tempo lavorava per l’ufficio del procuratore. Il legale si difese depositando fotocopia di un documento in cui veniva autorizzato da Forti a procedere nonostante il doppio incarico. Peccato che l’originale di quell’atto non sia mai stato trovato e anche la copia asseritamente spedita al Consolato italiano non sia mai stata recapitata. Peccato che le firma di Forti appaia falsificata. Ma c’è di più. Durante il processo la difesa si è distinta soprattutto per gli autogol messi a segno. Senza che Chico lo sapesse, accusa e difesa avevano sottoscritto «mozioni in limine». In sostanza la difesa aveva accettato, tra l’altro, di non dire alla corte che Forti era stato prosciolto dall’accusa di truffa, che Forti era incensurato, che lo stesso imputato era stato scagionato dalla prova della macchina della verità, mentre l’altro possibile indiziato, il tennista e truffatore tedesco Thomas Knott, aveva dovuto ripetere la prova del poligrafo quattro volte e i risultati erano stati secretati. Insomma, la difesa aveva accettato di rinunciare ad alcuni dei suoi più forti argomenti. Il risultato è stato una condanna all’ergastolo «senza condizionale», significa che l’imputato, se non ci sarà una revisione del processo, uscirà dal carcere solo in una cassa di zinco.
di Sergio Damiani
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