sabato 14 aprile 2012

LE VOCI DEL SILENZIO, SONO QUELLE DEI TREMILA ITALIANI DETENUTI ALL’ESTERO.


Nel dicembre del 2009, quando Amanda Knox fu condannata in primo grado per l’omicidio di Meredith Kercher, dagli Stati Uniti si levò una ridda di proteste, si scatenò una forte campagna mediatica e politica in favore della ragazza di Seattle. Il Corriere della Sera parlò allora di nazionalismo giudiziario – ennesima variante di un amor patrio che non sembra subire diminuzioni neppure nell’epoca della globalizzazione -, di una forma di sciovinismo che scatta, come scrisse Guido Olimpio, quando «un passaporto è più rilevante di un alibi». Contro «il tifo sbagliato dell’America», contro la crociata pro-Amanda, Beppe Severgnini fu ancora più duro: definì imbarazzanti le reazioni statunitensi, parlò espressamente di «lombrosiani al contrario» – per i quali «una ragazza così carina, e per di più americana, non può essere colpevole» -, sottolineò come gli Usa tendano a difendere i propri cittadini sempre e comunque, rievocò, come casi esemplari di questa tutela oltranzista, la tragedia del Cermis e l’uccisione di Calipari. 

Come ogni forma di esasperato sentimento nazionale, anche il nazionalismo giudiziario – che pure, nel caso Knox, pare in qualche modo aver concorso al raggiungimento della verità processuale emersa in secondo grado – rappresenta senza dubbio un anacronismo, un pregiudizio pericoloso (al pari di tutte le prese di posizione preconcette), un fenomeno politico-mediatico deprecabile. Altrettanto – se non ancora di più – deplorevoli sono però il disinteresse e il silenzio. Un silenzio cupo e profondo, come quello che avvolge i circa tremila italiani detenuti all’estero. Oltre ai marò imprigionati in India – la cui liberazione pare purtroppo ancora remota -, ci sono infatti migliaia di nostri connazionali (il 70% dei quali tuttora in attesa di processo) relegati nei penitenziari di altri Stati. Di questa drammatica realtà, presso che sconosciuta o dimenticata, si occupa ora “Le voci del silenzio. Storie di italiani detenuti all’estero” (Eclettica edizioni 2012, euro 13), meritorio volumetto scritto dal free lance perugino Fabio Polese insieme al romano Federico Cenci. Impreziosito dalla prefazione di Roberta Bruzzone – criminologa di fama, ormai volto noto della tv – il libro ha innanzitutto un alto valore morale: gli autori affrontano con consapevolezza un tema impopolare, s’impegnano in una non facile battaglia culturale per far emergere una realtà sommersa. “Le voci del silenzio” condensa alcune storie dai risvolti complessi; storie di vacanze trasformatesi in un inferno; storie di italiani dimenticati, costretti ad affrontare processi all’estero senza interprete; storie in cui è possibile scorgere i germi purulenti del razzismo. Attraverso interviste ai diretti interessati o ai parenti degli imputati, Polese e Cenci s’immergono in vicende giudiziarie articolate. Come quella di Enrico “Chico” Forti – «un clamoroso errore giudiziario», secondo Roberta Bruzzone – condannato all’ergastolo nella «sensazione», così si è espresso il giudice, che abbia istigato un delitto; come quella di Carlo Parlanti, rientrato in Italia solo poche settimane fa, dopo aver scontato l’85% della pena per un presunto stupro; come quella di Fernando Nardini, prima condannato per concorso in omicidio e poi assolto per non aver commesso il fatto, eppure costretto – come nel film “L’angolo rosso. Colpevole fino a prova contraria” (1997) – a firmare una confessione in thailandese e a tutt’oggi impossibilitato a tornare in Italia. Al di là del merito, dell’innocenza o della colpevolezza degli imputati, queste ed altre storie hanno almeno un elemento in comune: sono tutte permeate dall’indifferenza delle nostre istituzioni – fatta eccezione per due casi che hanno visto l’intervento di altrettanti parlamentari, uno dei Ds (ora Pd) e uno del Pdl -, nonostante gli evidenti pregiudizi anti-italiani che le caratterizzano (nel processo a Parlanti, ad esempio, si è più volte fatto riferimento ai “Soprano”, la serie tv statunitense che ci dipinge come mafiosi e violenti con le donne). Un passaporto non può, in nessun caso, essere più importante di un alibi. Allo stesso modo, però, uno Stato sovrano non può permettere che si replichi l’ingiustizia perpetrata contro Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, contro i due anarchici italiani prima condannati a morte da una giuria statunitense, negli anni Venti, e poi riabilitati a ben cinquant’anni di distanza. Tra l’indegno nazionalismo giudiziario e il silenzio più cupo – opportunamente denunciato dall’opera di sensibilizzazione di Polese e Cenci – deve pur esserci una via mediana.
di Leonardo Varasano, Giornale dell’Umbria del 26-03-2012

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