martedì 5 giugno 2012

Non soltanto i marò in India oltre 2900 italiani detenuti all'estero


Mentre su giornali e tv tiene banco la vicenda dei due lagunari sotto processo a Kochi, sono migliaia i nostri connazionali che, sparsi per il mondo, vivono situazioni simili. Da Enrico Forti, in carcere negli Usa, a Fernando Nardini, vittima di un errore giudiziario in Thailandia, da Mariano Pasqualin picchiato a morte in cella a Santo Domingo, a Carlo Parlanti liberato dopo aver scontato gran parte della sua ingiusta condanna: un esercito dimenticato a cui due giovani giornalisti hanno dato voce


La mattina del 16 febbraio 1998 su una spiaggia della Florida viene ritrovato il corpo senza vita di Dale Pike, figlio di un albergatore di Ibiza. Dell’omicidio viene accusato Enrico Forti (detto Chico), produttore televisivo trentino in trattativa per l’acquisto dell’albergo di proprietà del  padre di Dale. Lui si dichiara innocente, ma una giuria americana lo condanna all’ergastolo, affermando che “la Corte non ha le prove che Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ha la sensazione, al di là di ogni dubbio, che sia stato l’istigatore del delitto”. Condanna senza condizionale, verdetto di un processo senza prove e costellato da violazioni procedurali gravissime.

Fernando Nardini, romano di 53 anni è titolare di un’attività turistica a Pattaya, in Thailandia. La sua vita si divide fra il lavoro e il figlio avuto dalla ex moglie Roon-Napha Sridet. Tutto cambia nel giugno del 2007, quando viene ucciso un cittadino tedesco che aveva avuto una relazione con Roon. Fernando viene accusato di essere complice del delitto compiuto dalla ex compagna. Da lì in poi una serie di interrogatori e finte promesse (fra cui quella di poter rivedere suo figlio) che lo portano a firmare una confessione in seguito ritrattata. Dopo la condanna di primo grado viene chiuso in una cella e incatenato per un mese con acqua razionata. Oggi, dopo il giudizio di secondo grado e due anni nelle galere thailandesi, Fernando ha vinto la sua battaglia ed è tornato a casa dal figlio.
Queste ed altre storie di nostri connazionali detenuti all’estero sono raccolte nel libro “Le voci del silenzio” di Fabio Polese e Federico Cenci, edito da Eclettica. Un piccolo spaccato di una realtà molto più grande: oggi sono circa 2900 gli italiani detenuti all’estero. Di questi, quasi 2000 sono ancora in attesa di processo e una trentina aspettano di essere trasferiti in Italia per scontare la loro condanna, come prevede la convenzione di Strasburgo. Non solo i due marò sotto processo in India.
Attraverso contributi di testimoni e interviste ai familiari e ai protagonisti di queste vicende i due autori ci consegnano un quadro drammatico, fatto di uomini e donne a cui la propria nazione, molto spesso, ha voltato le spalle. Molti potrebbero essere vittime di errori giudiziari e tutti di violazioni di diritti fondamentali, con violenze fisiche e mentali, patite in spregio a tutte le norme del diritto internazionale che, come sottolineano gli autori,  Albert Einstein riteneva esistere soltanto nei manuali. Indagati picchiati fino alla morte come nel caso del vicentino Mariano Pasqualin, arrestato a Santo Domingo per traffico di droga; innocenti rilasciati dopo aver scontato anni di carcere come successo al consulente aziendale originario di Montecatini, Carlo Parlanti o, peggio, giustiziati, nel paese “faro” dei diritti umani: gli Stati Uniti d’America.
Sorte, quest’ultima, tragicamente subita dall’italoamericano Derek Rocco Barnabei che pochi mesi prima dell’esecuzione inviò un messaggio audio al Parlamento europeo in cui denunciava le violenze subite dai detenuti nel braccio della morte e chiedeva di avviare l’embargo commerciale agli Usa affinché questi abolissero la pena di morte, salvando così le vite di altri innocenti: “Vi prego di agire senza tenere conto di ciò che succede a me”. E poi ancora imputati lasciati senza interprete o avvocato in un paese di cui non conoscono lingua e leggi, in carceri senza acqua potabile e in condizioni igieniche disastrose. Situazioni critiche a cui non sempre la nostra rete diplomatica riesce a fare fronte in maniera accettabile.
Non più di qualche giorno fa il ministero degli Esteri, di fronte alle richieste di intervento avanzate dalla famiglia di Chico Forti, ha affermato di non poter agire in via diplomatica sulla vicenda. Il consolato di Miami si potrà attivare solo dopo che la magistratura americana accetterà di rivedere il caso, cosa fino ad ora (sono passati 12 anni dalla sentenza) mai avvenuta. Alle mancanze dello Stato cercano di supplire amici, familiari, associazioni e gruppi facebook uniti da un solo obiettivo: rompere il muro di silenzio che avvolge le loro storie.
di Alfonso Piromallo

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