(ASI) L'orrore. Non mi viene in mente nessun altra espressione per commentare le immagini che stanno giungendo nelle ultime settimane da quella che un tempo veniva chiamata Jamairiyyha - cioè "regime delle masse" - di Libia popolare e socialista.
Un leader barbaramente trucidato e violentato in un deserto da alcuni mercenari improvvisatisi militari, un intero popolo che aveva già dimostrato a più riprese in estate la propria fedeltà al precedente sistema politico, letteralmente annichilito dai bombardamenti della Nato. Case sventrate, edifici pubblici polverizzati, faide tribali, scontri razziali e disinformazione permanente in uno scenario scabroso ed anarchico, dove l'estremismo politico e religioso ha raggiunto livelli che pensavamo confinati al triste passato del colonialismo europeo, andato in scena tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo.
L'Italia, letteralmente commissariata da Nato e BCE, è ormai priva di qualunque pur minino margine di sovranità ed autonomia nazionale. Napolitano ha nei fatti affiancato con attivismo inedito il governo, e ha sostenuto più volte le ragioni di una missione militare di cui nessuno - dagli alti piani della grande comunicazione di massa - ci sta seriamente informando, e di cui sappiamo veramente poco.
Un dato certo, però, è che il nostro Paese ha partecipato attivamente a questa aggressione, con diversi cacciabombardieri ed almeno una portaerei (la Garibaldi), ormeggiata al largo del Golfo della Sirte, proprio davanti a quella città che oggi può senz'altro raffigurare una nuova, piccola ma altrettanto tragica Stalingrado dei giorni nostri. La desolazione e l'annichilimento lasciano senza parole. Ancora una volta la Nato comincia una missione nel nome della difesa dei diritti umani o della protezione della popolazione da un "feroce dittatore" (come in Serbia o in Iraq), per poi concluderla tra le polveri di un massacro perpetrato dall'alto, con stormi di F-16 e droni teleguidati, privi persino di pilota all'interno.
Senza nemmeno scendere a terra, l'immane potenza militare degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia, dell'Italia, della Norvegia e della Nato in generale, ha distrutto per sempre un Paese funzionante.
Pieno di difetti, il regime di Gheddafi manteneva infatti pregi che, oggi, tanto il mondo arabo quanto il mondo africano (i due riferimenti geopolitici del duplice sogno del Colonnello: quello panarabo di gioventù e quello panafricano della maturità) possono solo rimpiangere: tutele sociali, esenzioni fiscali, edilizia popolare, parità uomo-donna e un benessere diffuso facilmente deducibile dal dato (fornito dall'osservatorio mondiale della Cia all'inizio del 2011) di un PIL pro-capite pari a circa 13.800 dollari annui, cioè 1.150 dollari al mese. Un miraggio per molti Paesi dell'area del Nord Africa, soprattutto per l'Egitto di quell'Hosni Mubarak sempre presentato da Washington e Londra come l'autorevole leader di una democrazia compiuta, e poi improvvisamente trasformato dalla CNN e dalla BBC - al pari del suo omologo di Tunisi, Ben Alì - in un "terribile dittatore".
La manipolazione, l'incredibile gioco dei vocaboli, la sostituzione: tutto questo è stato capace di inbire intere masse inconsapevoli, pronte a sostenere in buona fede fazioni politiche presentate come "ribelli", e rivelatesi poco più che mercenari al servizio di potenze straniere. Eclatante è il caso del CNT libico, formato da personaggi di incrollabile fede e formazione occidentale e da estremisti già coinvolti nelle attività di Al Qaeda in Africa, che chiesero a gran voce i bombardamenti della Nato contro il proprio Paese, al grido di "Cacciamo Gheddafi" con le bandiere monarchiche alla mano. L'Italia ha perso tutto, ancor prima che questa guerra prendesse il via ufficialmente. L'amicizia con il governo libico ci aveva garantito una parziale autonomia ed una prima, importante diversificazione strategica, che poteva giostrare anche sui privilegiati rapporti con la Russia e sull'asse strategico del gas, avviato da Berlusconi con Mosca ed Ankara (progetto South Stream).
Oggi siamo letteralmente inghiottiti dalla crisi e non abbiamo fondi, fuorché per la spesa militare (rifinanziamento alle missioni all'estero appena votato in giugno) e per l'esorbitante spesa pubblica del mondo politico, non solo nazionale ma anche ed in particolar modo amministrativo (regioni, province, comuni, circoscrizioni, comunità montane, polizie locali, enti inutili ecc. ...). Ma la macchia più grande che resterà sulle nostre coscienze non è certo questa. Abbiamo voltato le spalle ad un Paese amico, un Paese in via di sviluppo, abbiamo ignorato la nostra Costituzione ed abbiamo stracciato un Trattato di Amicizia firmato appena tre anni fa. Il mondo ci guarda ancora oggi con rancore e con ilarità. Molti pensano che il problema siano le storie a luci rosse del presidente del consiglio. Nessun o quasi, sembra avere la coscienza ed il reale coraggio di guardare con i propri occhi i cadaveri di Tripoli, Sirte, Misurata o Bengasi, sepolti sotto le macerie dell'ipocrisia e della crudeltà, ancorché sotto quelle dei palazzi.
Di Andrea Fais,
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